Le Cinque Rose di Jennifer
di Annibale Ruccello
con Daniele Russo e Sergio Del Prete
scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Jennifer è un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica continuamente Se perdo te di Patty Pravo alla radio che, intanto, trasmette frequenti aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere. Gabriele Russo affronta per la prima volta un testo di Ruccello – scegliendo il più simbolico, quello che nel 1980 impose il drammaturgo all’attenzione di pubblico e critica. Il regista ci preannuncia una messinscena dall’estetica potente, fedele al testo e, dunque, alle intenzioni dell’autore «ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà Ruccello stesso – racconta Russo – cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi». In scena, un inedito Daniele Russo, affiancato da Sergio Del Prete in un allestimento che restituirà tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo.
Se ci si ferma a pensare, l’unica scelta sensata è quella di non azzardarsi a toccare un testo come Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello. È una pietra miliare del teatro, un testo che quanto più lo si legge e approfondisce tanto più ti penetra, ti entra nell’immaginario, si cristallizza nei pensieri e si deposita nell’inconscio. Anche solo dopo averlo letto (caso raro poiché sappiamo che “il teatro non si legge”) Jennifer smette di essere il personaggio di un testo teatrale per farsi carne e ossa, sangue e sentimenti. Una persona viva, sempre esistita. Qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te, nei tuoi sentimenti, nella tua cultura, nei tuoi suoni, nel tuo immaginario. Qualcosa di ancestrale, di antico e moderno, che risuona tutti i giorni dentro di noi, su un palcoscenico, nei vicoli della città o nelle pagine di un libro. Jennifer è il diavolo e l’acqua santa. Eterna contraddizione. Paradigma dell’ambiguità napoletana.
Questa sensazione di appartenenza è quella che soltanto i personaggi dei grandi classici riescono a restituire, quelli che, come fantasmi, si aggirano quotidianamente nelle segrete di tutti i teatri, anche quando in scena si recitano testi contemporanei.
È un testo che è Napoli stessa e dunque punto di riferimento, mito e desiderio di tutta la Napoli teatrale che ne conosce le battute a memoria. È un testo che, come tutti i classici ma in modo forse ancor più radicale, vediamo anche attraverso quello che è già stato, nella voce e nei corpi di chi già lo ha interpretato, primo fra tutti Ruccello stesso. Questi elementi, però, sono anche quelli che ci spingono a rimetterlo in scena, ad accostarci al suo mito, al suo fantasma, con rispetto ma anche liberi da sovrastrutture, poiché apparteniamo alla generazione che non ha vissuto Ruccello negli anni in cui era in vita, non abbiamo vissuto il lutto della sua prematura scomparsa: pertanto, scriviamo su di noi attraverso di lui. Per farlo, ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà l’autore stesso, cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi. Ad esempio, Anna, il travestito che va a trovarla a casa, chi è? Una proiezione di Jennifer? Il suo inconscio? L’assassino del quartiere? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Quel che accade è vero o è tutto nell’immaginario di Jennifer? Ecco perché nella nostra messinscena Anna è presente sul palco tutto il tempo dello spettacolo, osserva Jennifer dall’esterno, si aggira come uno spettro intorno alla casa (l’isola) su cui Jennifer galleggia e vive la sua intimità. È il suo specchio. Queste domande, queste sospensioni sostengono l’atmosfera fra il thriller ed il noir tanto cara a Ruccello, che noi cercheremo di amplificare al fine di creare quella tensione che richiede un testo fatto di telefonate e attese. Un testo che “rimanda” a Pinter o a Beckett…Confesso di aver immaginato anche di metterlo in scena come Giorni Felici, con la sola testa di Jennifer che fuoriusciva da un telo che avrebbe rappresentato il Vesuvio. Ma poi… perché? I temi e i livelli di lettura non sono univoci, non possono essere ingabbiati ed intellettualizzati. Le cinque rose di Jennifer racconta di due travestiti napoletani ma racconta anche e soprattutto la solitudine, la solitudine che è il rovescio della medaglia della speranza che Jennifer mantiene dentro di sè fino alla fine e, dal mio punto di vista, oggi racconta con forza anche la condizione dell’emarginato, quella di chi si deve nascondere. Ecco perché in questa nostra messinscena Jennifer al suo ingresso in casa non vestirà panni che dichiarano la sua condizione femminile ma si nasconderà in abiti apparentemente maschili, trasformandosi solo nell’intimità casalinga, in cui è libera di essere o di provare a essere. La trasformazione è un tema centrale della nostra messinscena: il travestire più che il travestito, il che ci lega anche alla città ed ai mille modi in cui essa si “copre” e “agghinda”. Jennifer si traveste, come un attore, come Napoli. Jennifer si trasforma, come un attore, come Napoli. È fragile, come un attore, come Napoli. Prova, come un attore, non come Napoli, che non ci prova nemmeno.
L’estetica della messinscena, sarà nel segno del Kitsch, un aspetto che Ruccello tiene ad evidenziare fin dalle prime didascalie, che rimanda a uno stile e a un linguaggio specifici. Per spiegarmi meglio, prendo a prestito le parole di Kundera, secondo il quale «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» è un mondo di sentimenti, dove vige la dittatura del cuore e, nel caso di Jennifer, la solitudine. Le restano solo gli oggetti e le fantasie a cui aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto, nelle mancanze, nelle ansie, nelle angoscia. L’estetica del Kitsch è finzione, così Jennifer finge con gli altri e con se stessa fino alle estreme conseguenze, respinge dal proprio campo visivo ciò che è essenzialmente inaccettabile. In tal senso è una vera attrice, perché finge talmente bene da essere vera.
Gabriele Russo
19 novembre 2023 Sulmona – Teatro Comunale Maria Caniglia
dal 21 al 16 novembre 2023 Milano – Teatro Elfo Puccini
dal 10 al 14 gennaio 2024 Napoli – Teatro Bellini
30 gennaio 2024 Faenza – Teatro Masini
31 gennaio 2024 Rimini – Teatro Galli
dal 3 al 4 febbraio 2024 Bari – Teatro Kismet Opera
dal 6 all’11 febbraio 2024 Palermo – Teatro Biondo
dal 3 al 4 febbraio 2024 Bari – Teatro Kismet Opera
Scheda di produzione
Rassegna stampa
Foto
Trailer
Visual
Gabriele Russo, regista di “Le cinque rose di Jennifer” andato in scena al Teatro Bellini, affida la “nuova” Jennifer alla complessa invenzione di Daniele Russo che, nel suo rapido e disperato trasformarsi, nella sua insofferenza di maschio, nella sua disperata rincorsa verso una femminilità lussuosa, nel disegno doloroso della inevitabile sconfitta, nel disegno di una solitudine senza scampo, si conferma originale ed eccellente protagonista del nostro teatro. Molti attori hanno cercato il senso ed il suono di Jennifer. Daniele Russo se ne è impadronito ora, con un dolore ed una passione coinvolgente, restituendocene l’illusione malata, dilatandola fino a mettere in scena la solitudine di una generazione incerta, cui sfuggono confini, geografie, storia ed amore. […]
[…] Testo “cult” del teatro italiano, scrittura d’impatto sicuro, gioco perfido di illusioni e sconfitte, thriller senza sbocco e senz’altra storia che quella di una illusione, di un’attesa disperata, di una violenza interiore, di un assedio malato, questa messa in scena de “Le cinque rose di Jennifer” realizzata al Bellini è si storia una telefonata che non arriverà mai, ma è immagine forte di solitudine senza scampo. E Daniele Russo, con il trucco disfatto nell’angoscia lussuosa del suo abito rosso, creato, come tutti gli altri costumi, da Chiara Aversano, è iperbole ed immagine da non dimenticare.
Giulio Baffi – la Repubblica 27 ottobre 2019
Sanghenapule
Vita straordinaria di San Gennaro
SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro
testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
regia Mimmo Borrelli
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata spettacolo 90 minuti
Scheda di produzione
Trailer
Locandina
Foto
“Viaggio nel sangue di Napoli, metaforico e vero; quello che fa vivere e quello che scorre ogni giorno, che ribolle da secoli a fare festa e fede, che riempie le pagine scritte a dare emozione e dolore.
[…] pozzo tetro d’antichi reperti assassini, anfiteatro di morte, presepio dirupato, cavea misteriosa e luogo di tormento miracoloso che si apre per diventare la tribuna in cui Roberto Saviano s’affaccia a parlare della storia di una città che scelse a santo protettore un martire decapitato. A dire poi di altri martiri che sognarono una società più giusta e furono uccisi tutti con determinata spietatezza regale, a ricordare il dolore di chi parte per andare lontano a cercare una vita migliore. Sangue e sangue che grida con forza pacata nella voce di un intellettuale sicuro che fa da contrappunto alla parola/canto dell’attore che recita le parti della città in angoscia e furore.”
Giulio Baffi, La Repubblica
“In una continua osmosi tra celeste e sotterraneo, attore e narratore percorrono alcune tappe della storia napoletana. La presenza narrativa di Saviano è una bussola necessaria, che guida lo spettatore all’interno della lingua, tanto meravigliosa quanto impenetrabile, di Mimmo Borrelli.”
Rossella Capuano, Eroica Fenice
“[…] il San Gennaro di Saviano e Borrelli è la metafora e il paradigma di una città ontologicamente sospesa – proprio come il sangue del suo Patrono – fra lo stato solido (una realtà dura, talvolta oppressiva e sempre capace di opporre un’immobilità paralizzante ai tentativi di spezzarne l’egemonia) e liquido (i sogni, le utopie, le pigrizie, i sentimenti, il culto di una tradizione spesso fraintesa).”
Enrico Fiore, Corriere del Mezzogiorno
Il caso Jekyll
IL CASO JEKYLL
tratto da Robert Louis Stevenson
adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
regia Sergio Rubini
con Sergio Rubini e Daniele Russo
e altri quattro attori in via di definizione
scene Gregorio Botta
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Marche Teatro, Teatro Stabile di Bolzano
Quando Stevenson scrive Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, Londra è una città povera, fumosa e pericolosa. L’ideale per lasciarsi contagiare dal noir e dal thriller. Ne Il caso Jekyll ci siamo svincolati dallo “strano”, dal tema filosofico del doppio, del confine tra il bene e il male, dal faustiano “andar contro le leggi divine”, temi di cui a prescindere è intrisa la materia, per dirigerci in un percorso investigativo, che accompagna per mano lo spettatore negli inferi, per farlo sbirciare nel mistero e nel terrore di una true crime story. Ci sono tutti gli elementi, ci si chiede “come sono andati i fatti?”. Ci sono delitti, c’è un investigatore a cui nessuno ha chiesto di investigare, che sprofonda in un caso prefreudiano di duplicazione delle personalità. Lo spettatore ha un vantaggio sull’investigatore, conosce i fatti, è lui il protagonista, colleziona i dettagli, esamina i dati e le ricostruzioni puntuali. Durante lo spettacolo poniamo degli interrogativi, il pubblico interpreta e cerca di comprendere la mente criminale, scopre la scena del crimine, alla ricerca di un senso. Assassini si nasce o si diventa? Quali sono i fattori che hanno portato Jekyll a scegliere di liberarsi e di liberare Hyde “che fin nel grembo tormentoso della coscienza questi gemelli antitetici dovessero essere in perenne tenzone.
Come fare, allora, a separarli?”. Chi ha deciso di uccidere? Jekyll il buono o il malefico Hyde? Questa è la storia “di un’anima immonda che si manifesta al di fuori del bozzolo che la contiene”.
14 aprile 2024 Viterbo – Teatro dell’Unione
16 aprile 2024 Narni – Teatro Manini
dal 18 al 20 aprile 2024 Massa – Teatro Guglielmi
spettacolo in allestimento
L'uomo più crudele del mondo
L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO
testo e regia Davide Sacco
con Lino Guanciale, Francesco Montanari
scene Luigi Sacco
luci Andrea Pistoia
organizzazione Ilaria Ceci
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, LVF, Teatro Manini di Narni
Una stanza spoglia, in un capannone abbandonato. I rumori della fabbrica fuori e il silenzio totale all’interno.
Paolo Veres è seduto alla sua scrivania, è l’uomo più crudele del mondo, o almeno questa è la considerazione che la gente ha di lui. Proprietario della più importante azienda di armi d’Europa, ha fama di uomo schivo e riservato. Davanti a lui un giovane giornalista di una testata locale è stato scelto per intervistarlo, ma la chiacchierata prende subito una strana piega.
“Lei crede ancora che si possa andare avanti dopo questa notte… lei crede che questa vita domani mattina sarà la stessa che viveva prima?” dirà Veres al giornalista.
In un susseguirsi di serrati dialoghi emergeranno le personalità dei due personaggi e il loro passato, fino a un finale che ribalterà ogni prospettiva.
Fino a dove può spingersi la crudeltà dell’uomo? Qual è il limite che separa una brava persona da un bestia? A cosa possiamo arrivare se lasciamo prevalere l’istinto sulla ragione?
Queste domande mi hanno guidato durante la stesura del testo e, successivamente, nella direzione degli attori. Volevamo che il pubblico fosse costantemente destabilizzato e non avesse certezze, che si calasse insieme ai personaggi in un viaggio in cui il rapporto tra vittima e carnefice è di volta in volta messo in discussione e ribaltato.
La “feccia” di cui parlano i protagonisti non è visibile nella scena, fatta essenzialmente di luci fredde e asettiche, ma deve emergere gradualmente fino al finale, in cui speriamo che il titolo dello spettacolo possa diventare nella testa degli spettatori non più un’affermazione ma una domanda per riflettere sulla natura del genere umano.
Davide Sacco
17 ottobre 2023 Cuneo – Teatro Toselli
18 ottobre 2023 Barga – Teatro dei Differenti
19 ottobre 2023 Cortona – Teatro Signorelli
dal 20 al 22 ottobre 2023 Fano – Teatro della Fortuna
dal 23 al 25 ottobre 2023 Massa – Teatro Guglielmi
dal 31 ottobre al 5 novembre 2023 Firenze – Teatro della Pergola
15 e 16 novembre 2023 Taranto – Teatro Fusco
20 novembre 2023 Brindisi – Teatro Impero
dal 27 febbraio al 3 marzo 2024 Verona – Teatro Stabile
dal 2 al 7 aprile 2024 Milano – Teatro Franco Parenti
Ferdinando
FERDINANDO
di Annibale Ruccello
con
Sabrina Scuccimarra Donna Clotilde
Anna Rita Vitolo Donna Gesualda
Arturo Cirillo Don Catello
Riccardo Ciccarelli Ferdinando
regia Arturo Cirillo
scene Dario Gessati
costumi Gianluca Falaschi
musiche Francesco De Melis
luci Paolo Manti
regista collaboratore Roberto Capasso
assistente alla regia Luciano Dell’Aglio
direttore di scena Paolo Manti
datore luci Giammatteo Di Carlo
sarta Raela Cipi
amministratrice di compagnia Serena Martarelli
direttore di produzione Marta Morico
organizzazione, distribuzione Alessandro Gaggiotti
direttore tecnico allestimento Roberto Bivona
responsabile allestimento scenico Mauro Marasà
ufficio stampa e comunicazione Beatrice Giongo
produzione
MARCHE TEATRO, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Arturo Cirillo riporta in scena Ferdinando, capolavoro della drammaturgia di Annibale Ruccello (1956-1986). Con questo allestimento, Arturo Cirillo, dopo le fortunate prove dello stesso autore Le cinque rose di Jennifer e L’ereditiera (Premio Ubu), firma un altro classico e allo stesso tempo contemporaneo capolavoro.
Agosto 1870: il Regno delle Due Sicilie è caduto e la baronessa borbonica Donna Clotilde nella sua villa vesuviana si è “ammalata” di disprezzo per il re sabaudo e per l’Italia piccolo-borghese nata dalla recente unificazione. A fare da infermiera all’ipocondriaca nobildonna è Gesualda, cugina povera e inacidita dal nubilato, ma segreta amante di Don Catellino, prete di famiglia corrotto e vizioso. I giorni passano tutti uguali, tra pasticche, decotti, rancori e bugie. A sconvolgere lo stagnante equilibrio domestico è l’arrivo di un sedicenne dalla bellezza efebica che, rimasto orfano, viene mandato a vivere da Donna Clotilde, di cui risulta essere un lontano nipote. Sarà lui a gettare lo scompiglio nella casa, riaccendendo passioni sopite e smascherando vecchi delitti. Ma chi è davvero Ferdinando?
Logica ed inconsueta, allo stesso tempo, mi appare la mia decisione di portare in scena Ferdinando di Annibale Ruccello. Logica perché riconosco in Ruccello un mio autore, un autore sul quale sono tornato più volte, e con spettacoli per me importanti. Ma la scelta mi appare anche inconsueta, poiché per me Ferdinando è sempre stato legato allo spettacolo che curò l’autore stesso (nonché primo interprete del ruolo di Don Catellino), che ha girato per molti anni tutta l’Italia avvalendosi della grande interpretazione di Isa Danieli.
Inoltre per me il testo è sempre apparso molto diverso da tutti gli altri di Ruccello, un testo più realistico, storico, un dramma con una struttura classica. Il desiderio per un inafferrabile adolescente, nato da un inconsolabile bisogno d’amore, matura nella mente di tre personaggi disperati (Donna Clotilde, Donna Gesualda e Don Catello), prigionieri della propria solitudine, esacerbati dall’abitudine. Allora tutto l’aspetto storico mi è apparso una finzione, un teatro della crudeltà mascherato da dramma borghese, in cui anche la lingua, il fantomatico napoletano in cui si sostanzia Donna Clotilde, è esso stesso lingua di scena, lingua di rappresentazione, non meno del tanto “schifato” italiano.
Una scena composta da un unico grande drappo che scende dall’alto e contiene il luogo dell’azione, un luogo claustrofobico in cui convivono tutti i personaggi, che vediamo spogliarsi, rivestirsi, incontrarsi (come in un film di Luis Bunuel). Personaggi rinchiusi in abiti scuri, monacali e preteschi, per devozione o lutto, ma forse solo per difesa. Illuminati da luci rivelatrici, come in un miracolo pagano, dove l’intimità delle note di un pianoforte convivono con quelle sontuose e barocche di un organo.
Poi c’è Ferdinando, ragazzino normale di un tempo presente, portatore solo del proprio corpo giovane sul quale gli altri tre personaggi, di questo quartetto, disegnano le proprie visioni e i propri desideri. Trascendendo dalla persona in sé, come spesso avviene nell’innamoramento, si ingannano e si lasciano ingannare. Dopo gli resta solo la constatazione del proprio fallimento e della propria folle e disperata solitudine, in un luogo spettrale abitato dai morti e dai ricordi.
Mi pare che con Ferdinando, ancora una volta e ancora di più, Ruccello faccia fuori i generi, sessuali e spettacolari, per mettere in scena l’ambiguo e il sortilegio.
Arturo Cirillo
26 ottobre 2023 Ancona -Teatro delle Muse
dall’1 al 5 novembre 2023 Roma – Teatro Parioli
dal 7 al 12 novembre 2023 Prato – Teatro Metastasio
14 novembre 2023 Vigone (TO) – Teatro Baudi di Selve
15 novembre 2023 Tortona (AL) – Teatro Civico
dal 16 al 19 novembre 2023 Milano – Teatro Carcano
dal 21 al 26 novembre 2023 Torino – Teatro Gobetti
28 e 29 novembre 2023 Sarzana (SP) – Teatro Impavidi
30 novembre 2023 Follonica (GR) – Teatro Fonderia Leopolda
dall’1 al 3 dicembre 2023 Monza (MB) – Teatro Manzoni
5 dicembre 2023 Oleggio (NO) – Teatro Civico
9 gennaio 2024 San Severino Marche (MC) – Teatro Feronia
dall’11 al 14 gennaio 2024 Genova – Teatro Duse
16 e 17 gennaio 2024 Taranto – Teatro Fusco
Salveremo il mondo prima dell'alba
SALVEREMO IL MONDO PRIMA DELL’ALBA
uno spettacolo di CARROZZERIA ORFEO
drammaturgia Gabriele Di Luca
con Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Massimiliano Setti, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati
regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi
consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Baddau
illustrazione locandina Federico Bassi e Giacomo Trivellini
organizzazione Luisa Supino e Francesco Pietrella
ufficio stampa Raffaella Ilari
una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Dopo aver esplorato in diversi spettacoli il mondo degli ultimi, dei reietti, degli esclusi e dei perdenti, intendiamo in questa nuova produzione indagare il mondo del benessere e dell’apparente successo, attraverso il racconto dei primi, dei vincenti, della classe dirigente, dei ricchi, paradossalmente, però, imprigionati nello stesso vortice di responsabilità asfissianti, doveri castranti, sensi di colpa e infelicità che appartengono a tutti e, quindi, frantumati da tutto ciò che la mentalità capitalista non può comprare: l’amore per se stessi, la purezza dei sentimenti, gli affetti sinceri, la ricerca di un senso autentico nell’esistenza.
Salveremo il mondo prima dell’alba è il racconto della vita di alcuni ospiti e di parte dello staff all’interno di una clinica di riabilitazione di lusso specializzata nella cura delle dipendenze contemporanee come dipendenze sessuali, dipendenza da Internet, dipendenze affettive, dipendenze da lavoro, da psicofarmaci e benzoadepine, droghe e antidolorifici.
In un mondo sempre più frenetico, individualista ed esibizionista, dominato da un tempo schizofrenico e performativo, il prezzo da pagare anche per i vincenti sono l’ansia e l’angoscia, conseguenza spesso dall’ossessione di dover ottenere sempre di più, consolidare, capitalizzare, superarsi. A causa di ciò oggi, come mai prima, le persone si sentono sopraffatte da gravi disfunzioni dell’umore come panico sociale, insonnia, burnout da lavoro, insoddisfazione cronica, stress, inquietudine, frustrazione, senso di fallimento e di vuoto. Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale. Ed è così che sprofondati nel disagio per sfuggire alla realtà, gli ospiti del nostro rehab sono rimasti vittime ognuno della propria dipendenza, via di fuga da una realtà opprimente dalla quale, alcuni costretti dalla società, altri per libera scelta, cercano di liberarsi. Ma le dipendenze e la riabilitazione, ovviamente, costituiscono solo il sintomo esteriore di innumerevoli disagi certamente più profondi, esistenziali e sociali; la metafora di un modello di vita ormai giunto a un punto di non ritorno.
“Il bene non potrà mai vincere perché è sfinente.
L’onestà, la sincerità, il vero amore,
sono tutte cose sfinenti da praticare perché non durano,
sono solo degli istanti. Mentre il male è un maledetto maratoneta,
uno spietato realista senza sonno che ha la resistenza dalla sua.”
Dopo aver esplorato in diversi spettacoli il mondo degli ultimi, dei reietti, degli esclusi e dei perdenti, intendiamo in questa nuova produzione indagare il mondo del benessere e dell’apparente successo, attraverso il racconto dei primi, dei vincenti, della classe dirigente, dei ricchi, paradossalmente, però, imprigionati nello stesso vortice di responsabilità asfissianti, doveri castranti, sensi di colpa e infelicità che appartengono a tutti e, quindi, frantumati da tutto ciò che la mentalità capitalista non può comprare: l’amore per se stessi, la purezza dei sentimenti, gli affetti sinceri, la ricerca di un senso autentico nell’esistenza.
Salveremo il mondo prima dell’alba è il racconto della vita di alcuni ospiti e di parte dello staff all’interno di una clinica di riabilitazione di lusso specializzata nella cura delle dipendenze contemporanee come dipendenze sessuali, dipendenza da Internet, dipendenze affettive, dipendenze da lavoro, da psicofarmaci e benzoadepine, droghe e antidolorifici.
In un mondo sempre più frenetico, individualista ed esibizionista, dominato da un tempo schizofrenico e performativo, il prezzo da pagare anche per i vincenti sono l’ansia e l’angoscia, conseguenza spesso dall’ossessione di dover ottenere sempre di più, consolidare, capitalizzare, superarsi. A causa di ciò oggi, come mai prima, le persone si sentono sopraffatte da gravi disfunzioni dell’umore come panico sociale, insonnia, burnout da lavoro, insoddisfazione cronica, stress, inquietudine, frustrazione, senso di fallimento e di vuoto. Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale. Ed è così che sprofondati nel disagio per sfuggire alla realtà, gli ospiti del nostro rehab sono rimasti vittime ognuno della propria dipendenza, via di fuga da una realtà opprimente dalla quale, alcuni costretti dalla società, altri per libera scelta, cercano di liberarsi. Ma le dipendenze e la riabilitazione, ovviamente, costituiscono solo il sintomo esteriore di innumerevoli disagi certamente più profondi, esistenziali e sociali; la metafora di un modello di vita ormai giunto a un punto di non ritorno.
Il tutto (senza mai negare l’emotività e anche la drammaticità delle tematiche affrontate) verrà esplorato in pieno stile Carrozzeria Orfeo, grazie a un occhio sempre lucido e, forse, disilluso, che intende cogliere, con ironia e anche estremo divertimento, i paradossi, le contraddizioni e le deformazioni grottesche della realtà attraverso personaggi strabordanti di umanità, ironia e dolore. L’habitat della nostra storia, il rehab di lusso, è costituita da una grande sala comune dotata di tutti i comfort, separata attraverso una luminosa vetrata dall’esterno, dove in una sorta di giardino d’inverno con tanto di sdraio e bagno turco, gli ospiti facoltosi si possono rilassare e affrontare il loro programma di riabilitazione attraverso la riscoperta di una vita apparentemente semplice e comunitaria nella quale ognuno è chiamato a impegnarsi per il prossimo e la comunità stessa, la loro nuova famiglia. Tutto ciò è evidentemente qualcosa a cui sono profondamente disabituati.
Salveremo il mondo prima dell’alba vuole affrontare alcuni tra i nodi più sensibili della nostra contemporaneità: la proliferazione delle immagini, il fascino della celebrità, il culto del divertimento e della personalità, soprattutto nel nuovo mondo virtuale, come sintomo di una società sempre più triste eppure satura di foto felici in cui sembra non più esistere un luogo dove riconoscersi come soggetti autentici, né tantomeno in progetti sociali che richiedano la nostra dedizione e la nostra lealtà. La proliferazione di mental coach, di influencer, di trainer, di business man prestati al web, che quotidianamente ci propinano stratagemmi funzionali per raggiungere il successo psicofisico e prevalere sugli altri, essere migliori e dominarli, sono lo specchio di una società che sempre di più, fin da piccoli, fin dalla scuola, ci racconta tutto sulla felicità e sul successo e sempre di meno sul dolore. Dolore inteso, soprattutto, come occasione di ascolto di se stessi, opportunità di trasformazione e crescita. L’errore è bandito, la sofferenza individuale è percepita come una vergogna, una zavorra da nascondere agli altri, come segnale chiaro di debolezza e fallimento; mentre in modo sempre più meschino e ingannevole va affermandosi la nuova eroica parola portavoce del capitalismo: resilienza, che, nel cinico pragmatismo di questo sistema malato, in fondo significa solo: “Resisti, resisti nonostante tutto, ignora te stesso e il tuo dolore, nascondilo, tieni duro, non ascoltarti più e vai avanti. Produci, produci, produci!” E dai desideri soddisfatti nascono sempre nuovi desideri. Sempre più prepotenti, ossessivi e, spesso, indotti dal mondo esterno. Come se volessimo bere il mare di bicchiere in bicchiere. L’infinito. L’impossibile. Un impossibile ricerca senza tempo. Ed è da qui che viene il nostro dolore. Hegel ci parla di Cattivo infinito come di “questo continuo voler sorpassare il limite, che è l’impotenza di toglierlo e la perenne ricaduta in esso.”
E il grande problema sembra essere che ormai non ci si scandalizza nemmeno più delle disfunzioni e delle atrocità del capitalismo perché è un modello di vita diventato così maledettamente normale da essere riuscito a colonizzare il nostro inconscio senza lasciarci nessuna percezione di un’alternativa. Ed ecco, quindi, che parole come comunità, umanità e gentilezza sono quasi del tutto scomparse e bandite dalla nostra società (e quasi dal nostro modo di pensare), se non per essere strumentalizzate a fini propagandistici, elettorali e commerciali e, quindi, svalutate e svuotate di ogni loro significato primario. Di tutto questo resta un’umanità (poveri e ricchi, senza differenze) confusa e impaurita, esseri umani sopraffatti dall’ossessione di questo continuo doversi vendere, con il terrore che nessuno ti voglia mai comprare.
Il tema centrale di Salveremo il mondo prima dell’alba, quindi, si fonda sulla riflessione che a nostro avviso nei prossimi decenni, l’umanità non potrà essere assolutamente in grado di ritrovarsi unita nel combattere le grandi battaglie da tempo rimaste inascoltate come il cambiamento climatico, l’inquinamento, la fame nel mondo e l’ingiustizia sociale, semplicemente perché non è un’umanità preparata a farlo. Non siamo veramente una comunità. In un mondo dove individualismo, narcisismo, slealtà, tradimento, svalutazione dei valori, compromesso, annullamento della morale dominano incontrastati, in un contesto sociale così performativo, competitivo, alienante, dove le nuove generazioni sembrano ereditare solo valori come successo, visibilità e vittoria, sembra impossibile pensare a una grande battaglia collettiva per salvare questo pianeta e l’umanità che lo abita. Quando i politici stessi si espongono su tik tok per pubblicizzarsi e la vita politica, al pari di tutto il resto, diventa mera comunicazione, non può esistere una classe dirigente in grado di sensibilizzare la cittadinanza sui grandi temi. Forse, allora, per poter combattere delle grandi battaglie comuni, dovremo prima essere in grado di ritrovare quel senso di comunità, reciprocità, solidarietà e gentilezza che sembriamo aver smarrito. Potremmo concentrarci sulle grandi battaglie collettive solo se riusciremo prima a riabituarci a guardare con occhi attenti ciò che ci è vicino, chi ci è di fianco. Potremo, forse, farcela solo se riusciremo ad arginare tutta quell’invisibile, eppur feroce, violenza quotidiana tra uomo e uomo. Perché lo sappiamo tutti, ci troviamo di fronte a una pandemia, sì… di indifferenza ed egoismo. Ma se riusciremo in questo, se riusciremo a riavvicinarci attraverso un gesto e un pensiero sincero, un insignificante atto di gentilezza e cura gratuita; se riusciremo a ritagliare, in mezzo al caos, uno spazio per il pensiero semplice, familiare e umano, forse, come proveranno a fare i ricchi, arrabbiati, delusi e inaffidabili ospiti del nostro rehab… beh, forse (ma chi può dirlo), potremo salvare il mondo prima dell’alba.
“Non siamo in grado di riconoscere le cose importanti,
siamo troppo stanchi ed esausti dal resto.
Vediamo la vita solo sfiorando la catastrofe.”
Gabriele Di Luca
Antonio e Cleopatra
ANTONIO E CLEOPATRA
di William Shakespeare
con Anna Della Rosa, Valter Malosti
e cast in via di definizione
uno spettacolo di Valter Malosti
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Stabile di Bolzano, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, LAC Lugano Arte e Cultura
Di Antonio e Cleopatra la mia generazione ha impresso nella memoria soprattutto l’immagine, ai confini con il kitsch, e vista attraverso la lente d’ingrandimento del grande cinema di Hollywood, della coppia Richard Burton/Liz Taylor. Ma su quest’opera disincantata e misteriosa, che mescola tragico, comico, sacro e grottesco, su questo meraviglioso poema filosofico e mistico (e alchemico) che santifica l’eros, che gioca con l’alto e il basso, scritto in versi che sono tra i più alti ed evocativi di tutta l’opera shakespeariana, aleggia, per più di uno studioso, a dimostrarne la profonda complessità, l’ombra del nostro grande filosofo Giordano Bruno: un teatro della mente.
Per Antonio conoscere Cleopatra – un “Serpente del vecchio Nilo” che siede in trono rivestita del manto di Iside – è ciò che dà un senso al viaggio della vita. Quanto a Cleopatra, scrive Nadia Fusini, “è la sacerdotessa di un’azione drammatica da cui sgorga ancora e di nuovo l’antica domanda, che già ossessionava Zeus e Era: in amore chi gode di più? l’uomo o la donna? […] e chi ama di più, gode forse di meno? E tra gli amanti, chi riceve di più? […] Sono domande che nella logica dell’economia erotica con cui Shakespeare gioca esplodono con fragore dissolvendo pretese macchinazioni puritane volte a legiferare in senso repressivo sulla materia incandescente dell’eros.”
Antonio e Cleopatra è un prisma ottico, come ci suggerisce Gilberto Sacerdoti: “Visto di fronte è la storia di amore e di politica narrata da Plutarco. Visto di sbieco ci spinge a decifrare “l’infinito libro di segreti della natura”. Per trovare un corrispettivo dell’infinito amore di Antonio bisogna dunque per forza scoprire un nuovo cielo e una nuova terra.
Valter Malosti
Spettacolo in allestimento
En Abyme
EN ABYME
di Tolja Djoković
regia Fabiana Iacozzilli
con Simone Barraco, Oscar De Summa, Francesca Farcomeni, Evelina Rosselli
e con Aurora Occhiuzzi
spazio scenico Giuseppe Stellato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Omar Scala
musica e disegno sonoro Tommy Grieco
regista assistente Cesare Del Beato
regia video Raffaele Rossi, Nicolas Spatarella e Fabiana Iacozzilli
produzione Fondazione La Biennale di Venezia, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Lac – Lugano Arte E Cultura, Cranpi, Elsinor
produzione esecutiva Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
con il supporto di Carrozzerie N.O.T. e Fivizzano27
Il testo di Tolja Djoković narra il tentativo da parte di James Cameron da un lato e quello di Una bambina/Donna dall’altro, di riportare in superficie pezzi di un abisso inesplorato. Per quanto riguarda Cameron la sfida è quella di scendere nell’abisso Challenger – nel cuore della Fossa delle Marianne – luogo dove nessuno prima di lui era mai arrivato e tentare di riemergere con delle certezze circa quel mondo sconosciuto. Per quanto riguarda la discesa della bambina/donna, il viaggio nella sua profondità fa riemergere pezzi di vita, squarci di un passato vissuto con un padre e forse anche rimosso, momenti di solitudine accompagnati dalla sola visione del film Titanic di James Cameron.En Abyme è un gioco di rispecchiamenti, un testo prismatico che lavorando sulla struttura ad effetto Droste ribalta continuamente il punto di vista sulle vicende narrate e ci fa interrogare su chi siamo, chi ci guarda e su cosa siamo in grado di far tornare alla luce di noi stess*.L’intento della regia è quello di accompagnare lo spettatore in queste due immersioni, di porsi come sguardo ulteriore su una discesa che, mentre precipita dentro un abisso grotta che ricorda il ventre materno, si fa soprattutto ricerca ostinata di un padre, di una relazione con il paterno, della volontà di essere vist* e riconosciut* dal padre.
Lo spettacolo attraverso un dialogo constante tra il dispositivo drammaturgico a quattro voci – L’occhio della telecamera, La fossa delle Marianne, Il documentario e Le didascalie – e il dispositivo scenico che, come fosse un film da vedere e rivedere alla ricerca di una traccia mette al centro della narrazione le immagini proiettate della vita della bambina/donna, si interroga sulla possibilità di cogliere in un fotogramma della nostra vita una connessione tra un dentro e un fuori, sulla possibilità di riemergere viv* dalla Fossa delle Marianne presente in ognun* di noi.
Fabiana Iacozzilli
Opera Viva
OPERA VIVA
di Elvira Buonocore
con Riccardo Ciccarelli, Alessandra Cocorullo, Stefania Remino, Gianluca Vesce
regia Maria Chiara Montella
scene Lucia Imperato
costumi Giuseppe Avallone
disegno Luci Maurizio Di Maio
progetto Sonoro Alessio Foglia
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Le case sono vive. Sono luoghi metamorfici soggetti al divenire. Posti mutevoli in cui l’infanzia semina con euforia. Le case sono piantagioni furibonde, incipit architettonici di un racconto esistenziale che non potendo mai finire, si sfilaccia in una dolorosa intermittenza. I tre fratelli, Palma, Alfio e Rosario, si ritrovano presso lo studio di un notaio per la discussione di un atto di compravendita. La loro casa natale, costruita sul versante costiero di una regione imprecisata, viene di fatto svenduta dopo anni di indugi. È la procedura notarile che, autorizzata dalla legge all’invadenza, ricostruisce l’evento. Il ricordo immobile, il macigno che la casa ha conservato e che i suoi abitanti hanno voluto rimuovere. È un assedio di domande, un violento attacco personale: il rogito diventa a poco a poco un processo. Un atto di accusa. Attraverso quella costante, premeditata intermittenza, il passato penetra nel racconto, lo segmenta, lo travolge. Lo spacca in due.
Scheda di produzione
Rassegna stampa
Foto
Visual
“Viva e morta, l’opera si realizza a metà tra due mondi: la partenza e il ritorno, l’infanzia e l’età adulta, il presente e la reminiscenza”
Chiara Aloia, Eroica Fenice
Immacolata Concezione
IMMACOLATA CONCEZIONE
uno spettacolo di Vuccirìa Teatro
da un’idea di Federica Carruba Toscano
drammaturgia e regia Joele Anastasi
con Federica Carruba Toscano, Alessandro Lui, Enrico Sortino, Joele Anastasi, Ivano Picciallo
scene e costumi Giulio Villaggio
light designer Martin Palma
musica originale scurannu agghiunnannu Davide Paciolla
testo musica originale Federica Carruba Toscano
aiuto regia Nathalie Cariolle
collaborazione alla drammaturgia Federica Carruba Toscano
contributo drammaturgico Alessandro Lui
foto Dalia Romeo
video e graphic designer Giuseppe Cardaci
scenotecnica 2C Arte
opere di cartapesta Ilaria Sartini
organizzazione Nicole Calligaris
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Spettacolo vincitore di Teatro del Sacro V
Sicilia, 1940. Concetta, ragazza silenziosa e innocente, viene barattata dal padre caduto in disgrazia con una capra gravida e affidata a Donna Anna, tenutaria del bordello del paese. Lei, estranea ai piaceri della carne e a qualunque “adulta” concezione della vita, non oppone nessuna resistenza.
Del resto, nessuno le ha mai spiegato cosa voglia dire fare l’amore, nonostante quella parola le piaccia già. Ben presto la fama “della nuova arrivata” raggiunge tutto il paese: ma nessuno sa di preciso quali piaceri regali agli uomini per farli impazzire così tanto.
Malgrado tutti millantino di mirabolanti prestazioni, dentro la stanza del bordello, nessuno di loro l’ha mai toccata. Concetta è vergine. Ha il dono di “sentire” l’anima dei suoi clienti, rendendo possibile la loro fragilità nascosta. Dona loro quello che nessuno sa dargli. Concetta è sicura! Crede che questo significhi fare l’amore: fare la barba o giocare a un due tre stella o offrire il petto per le lacrime del “signorotto” del paese. Non capisce perché il mestiere di prostituta susciti tanto scalpore in paese.
Ma come è possibile raggiungere un angolo di paradiso senza pretenderlo tutto? Ogni uomo vuole Concetta tutta per sé, come fosse un oggetto di inestimabile valore. Solo la memoria e il martirio la renderanno indelebile. Così Concetta potrà diventare santa: quando non apparterrà più neanche a se stessa ma solo alla collettività; quando la sua purezza si eleverà a coscienza; quando la sua potenza, abbandonando il corpo, si imprimerà nella memoria; quando il ricordo di lei, affidato ai tempi che verranno, continuerà a generare amore. Solo allora verrà il tempo di Immacolata Concezione.
Guardare attraverso i personaggi di Immacolata Concezione è come sfogliare le pagine di un vecchio diario e scoprire le oscillazioni più fragili delle loro anime; come avere accesso alla memoria collettiva e storica che abita in noi e genera le nostre più antiche passioni.
Il tempo della storia è il passato che qui si fa molla per il futuro: per riscriverne uno nuovo. E noi, spettatori del mondo di oggi, ci aggrappiamo a qualche ultimo brandello di un passato carico di valori e speranza. Non c’è fiducia nel progresso. Non c’è fiducia nel tempo che verrà. È solo guerra, minaccia di guerra, guerra senza frontiere e senza regole. E noi abbiamo solo bisogno di amore, amore e altro amore.
Joele Anastasi
22 marzo 2024 Follonica – Teatro Fonderia Leopolda
Io, mai niente con nessuno avevo fatto
IO, MAI NIENTE CON NESSUNO AVEVO FATTO
drammaturgia e regia Joele Anastasi
con Joele Anastasi Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano
scene e costumi Giulio Villaggio
light designer Joele Anastasi
aiuto regia Nicole Calligaris
foto Dalila Romeo
video Davide Marucci
graphic designer Giuseppe Cardaci
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Un paesino di Sicilia, fine anni ‘80. Due cugini crescono come fratello e sorella e giocano per cancellare la solitudine ancestrale di una famiglia senza padri. Sono prede troppo vulnerabili senza nessuno che dia loro consapevolezze o difese: dietro le persiane è nascosto un paese che spia, giudica e non vive. Tentano di combattere il loro destino per sognare, lei di lasciare quell’isola che li culla e li affoga, lui di amare liberamente un uomo.
Come in una tragedia antica va espiata la colpa di chi si ribella e il giovane puro è sporcato dallo spettro dell’Hiv. Lui che ‘mai niente con nessuno aveva fatto’ s’infetta d’amore. Mentre tutti piangono già la sua morte, il suo istinto alla vita esplode candido e redime il paese.
Io, mai niente con nessuno avevo fatto è la storia di una lotta, per cancellare quella che è percepita dai protagonisti come una solitudine ancestrale. Sono anime troppo vulnerabili, ma che hanno fatto della loro vulnerabilità il mezzo per squarciare il velo. Tentano di resistere all’ineluttabilità che incombe – come nel modello della tragedia antica – e questa lotta è incarnata da Giovanni, l’unico che riesce a superare istintivamente il peso di un destino già scritto, che si libera in maniera del tutto naturale, scrivendone un’altro possibile con il suo stesso corpo e con il suo stesso agire.
Battuage
BATTUAGE
drammaturgia e regia Joele Anastasi
con Joele Anastasi, Enrico Sortino, Federica Carruba Toscano, Ivan Castiglione
aiuto-regia Enrico Sortino
scene e costumi Giulio Villaggio
disegno luci Davide Manca
musica originale Battuage Alberto Guarrasi
foto Dalila Romeo
video Giuseppe Cardaci
make-up Stefania D’Alessandro
uno spettacolo di Vuccirìa Teatro
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Dopo i due precedenti e appassionati lavori, Immacolata Concezione e Io mai niente con nessuno avevo fatto, la compagnia Vuccirìa Teatro ripropone uno dei suoi spettacoli più dirompenti: Battuage, orinatoio dell’anima: un luogo popolato da zombie notturni alla ricerca di sesso facile. Una storia raccontata attraverso gli occhi – deformanti – di Salvatore, giovane lavoratore del sesso. Eterosessuali, Transessuali, Omosessuali, Gigolò, Puttane, Marchette, Scambisti abitano questo luogo non luogo. Ma Salvatore, non è una vittima. Ha scelto di giocare a questo gioco, in cui lo spazio scenico diventa metafora del mondo. Un obitorio per vivi, per provare a raccontare lo sforzo e la necessità di queste anime di rimanere ognuna saldamente attaccata a questa propria personale deformità per non auto-definirsi del tutto morti.
Dopodiché stasera mi butto
DOPODICHÉ STASERA MI BUTTO
uno spettacolo di Generazione Disagio
di e con Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Andrea Panigatti, Luca Mammoli
regista e co-autore Riccardo Pippa
consulenza scene e costumi Margherita Baldoni
luci Max Klein
disegni Duccio Mantellassi
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Lo spettacolo di Generazione Disagio, Dopodiché stasera mi butto, primo lavoro teatrale del collettivo, è un cinico e spassoso gioco dell’oca che mira all’annullamento. Le tematiche di disagio generazionale, crisi e voglia di cambiamento vengono trattate con un gioco di ribaltamento paradossale, invece di risolvere i problemi o lottare per un mondo migliore il pubblico viene invitato a scaricare tutti i suoi problemi su un attore che è un giocatore-pedina e che si contenderà con gli altri la possibilità di arrivare per primo alla casella finale: quella del suicidio. Varie prove e imprevisti faranno avanzare o indietreggiare i personaggi su un tabellone, anche grazie all’aiuto del pubblico dal vivo. Quattro personaggi conducono il pubblico a giocare una folle partita a uno strano e innovativo gioco dell’oca, che ha come obiettivo la casella finale del suicidio. Un conduttore coinvolge gli spettatori per fare avanzare tre pedine umane sul tabellone: un dottorando, un precario e uno stagista attraverseranno imprevisti, prove collettive e prove individuali con un ritmo comico serrato e pezzi di improvvisazione basati su input che vengono dal pubblico. Vincerà chi riesce ad accumulare più sfighe e perciò più “disagio”. Nell’arco dei 70 minuti di spettacolo si affrontano temi quali l’amore, la paura del futuro, il lavoro, la sessualità, la politica, la solitudine e l’indeterminatezza. Uno spettacolo di cinica auto-analisi collettiva che non fa sconti a nessuno: irriverente, comico e profondo, che ci costringe a fare i conti con il mondo che abbiamo costruito e la vita che vorremmo. Il linguaggio alterna in un ritmo serrato citazioni colte, riferimenti pop e provocazioni trash.
“Sappiamo chi sei.
Tu sei un disagiato. Lo sai tu e lo sappiamo anche noi. Sappiamo quante energie sprechi per non farlo vedere. Fratello disagiato, basta: Il disagio non è un ostacolo sulla strada, il disagio è la strada.
Non cercare di cambiare te stesso. Non cercare di apparire migliore. Accettati come sei: pigro, inetto, inconcludente, dispersivo, vile. Noi ti vogliamo bene così.
Non preoccuparti: elimineremo assieme ogni senso di colpa, ogni residuo di frustrazione.
Noi siamo qui per aiutarti.
Siamo portatori di un messaggio universale che si esprime attraverso la pratica delle tre d:
Distrazione, Disinteresse, Disaffezione.
Stringi la mano che ti porgiamo. Il futuro è nostro. Grandi giorni di festa si avvicinano.
Noi siamo la Generazione Disagio. E ce ne sbattiamo il cazzo.”
Scheda di produzione
Rassegna stampa
Visual
Trailer
“[…] la capacità degli attori di Generazione disagio è proprio quella di lanciare forti provocazioni mantenendo sempre un tono scanzonato, di inquietare agendo nel sotterraneo di una superficie di frizzi e lazzi, di far ridere lanciando dei macigni. Di rappresentare, fotografare in questo modo una desolazione generazionale con gli strumenti e i mezzi espressivi propri di questa stessa generazione.”
Giampiero Raganelli – teatroteatro.it