Le Cinque Rose di Jennifer

di Annibale Ruccello

con Daniele Russo e Sergio Del Prete

scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia

regia Gabriele Russo

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Jennifer è un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica continuamente Se perdo te di Patty Pravo alla radio che, intanto, trasmette frequenti aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere. Gabriele Russo affronta per la prima volta un testo di Ruccello – scegliendo il più simbolico, quello che nel 1980 impose il drammaturgo all’attenzione di pubblico e critica. Il regista ci preannuncia una messinscena dall’estetica potente, fedele al testo e, dunque, alle intenzioni dell’autore «ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà Ruccello stesso – racconta Russo – cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi». In scena, un inedito Daniele Russo, affiancato da Sergio Del Prete in un allestimento che restituirà tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo.

Se ci si ferma a pensare, l’unica scelta sensata è quella di non azzardarsi a toccare un testo come Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello. È una pietra miliare del teatro, un testo che quanto più lo si legge e approfondisce tanto più ti penetra, ti entra nell’immaginario, si cristallizza nei pensieri e si deposita nell’inconscio. Anche solo dopo averlo letto (caso raro poiché sappiamo che “il teatro non si legge”) Jennifer smette di essere il personaggio di un testo teatrale per farsi carne e ossa, sangue e sentimenti. Una persona viva, sempre esistita. Qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te, nei tuoi sentimenti, nella tua cultura, nei tuoi suoni, nel tuo immaginario. Qualcosa di ancestrale, di antico e moderno, che risuona tutti i giorni dentro di noi, su un palcoscenico, nei vicoli della città o nelle pagine di un libro. Jennifer è il diavolo e l’acqua santa. Eterna contraddizione. Paradigma dell’ambiguità napoletana.
Questa sensazione di appartenenza è quella che soltanto i personaggi dei grandi classici riescono a restituire, quelli che, come fantasmi, si aggirano quotidianamente nelle segrete di tutti i teatri, anche quando in scena si recitano testi contemporanei.
È un testo che è Napoli stessa e dunque punto di riferimento, mito e desiderio di tutta la Napoli teatrale che ne conosce le battute a memoria. È un testo che, come tutti i classici ma in modo forse ancor più radicale, vediamo anche attraverso quello che è già stato, nella voce e nei corpi di chi già lo ha interpretato, primo fra tutti Ruccello stesso. Questi elementi, però, sono anche quelli che ci spingono a rimetterlo in scena, ad accostarci al suo mito, al suo fantasma, con rispetto ma anche liberi da sovrastrutture, poiché apparteniamo alla generazione che non ha vissuto Ruccello negli anni in cui era in vita, non abbiamo vissuto il lutto della sua prematura scomparsa: pertanto, scriviamo su di noi attraverso di lui. Per farlo, ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà l’autore stesso, cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi. Ad esempio, Anna, il travestito che va a trovarla a casa, chi è? Una proiezione di Jennifer? Il suo inconscio? L’assassino del quartiere? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Quel che accade è vero o è tutto nell’immaginario di Jennifer? Ecco perché nella nostra messinscena Anna è presente sul palco tutto il tempo dello spettacolo, osserva Jennifer dall’esterno, si aggira come uno spettro intorno alla casa (l’isola) su cui Jennifer galleggia e vive la sua intimità. È il suo specchio. Queste domande, queste sospensioni sostengono l’atmosfera fra il thriller ed il noir tanto cara a Ruccello, che noi cercheremo di amplificare al fine di creare quella tensione che richiede un testo fatto di telefonate e attese. Un testo che “rimanda” a Pinter o a Beckett…Confesso di aver immaginato anche di metterlo in scena come Giorni Felici, con la sola testa di Jennifer che fuoriusciva da un telo che avrebbe rappresentato il Vesuvio. Ma poi… perché? I temi e i livelli di lettura non sono univoci, non possono essere ingabbiati ed intellettualizzati. Le cinque rose di Jennifer racconta di due travestiti napoletani ma racconta anche e soprattutto la solitudine, la solitudine che è il rovescio della medaglia della speranza che Jennifer mantiene dentro di sè fino alla fine e, dal mio punto di vista, oggi racconta con forza anche la condizione dell’emarginato, quella di chi si deve nascondere. Ecco perché in questa nostra messinscena Jennifer al suo ingresso in casa non vestirà panni che dichiarano la sua condizione femminile ma si nasconderà in abiti apparentemente maschili, trasformandosi solo nell’intimità casalinga, in cui è libera di essere o di provare a essere. La trasformazione è un tema centrale della nostra messinscena: il travestire più che il travestito, il che ci lega anche alla città ed ai mille modi in cui essa si “copre” e “agghinda”. Jennifer si traveste, come un attore, come Napoli. Jennifer si trasforma, come un attore, come Napoli. È fragile, come un attore, come Napoli. Prova, come un attore, non come Napoli, che non ci prova nemmeno.
L’estetica della messinscena, sarà nel segno del Kitsch, un aspetto che Ruccello tiene ad evidenziare fin dalle prime didascalie, che rimanda a uno stile e a un linguaggio specifici. Per spiegarmi meglio, prendo a prestito le parole di Kundera, secondo il quale «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» è un mondo di sentimenti, dove vige la dittatura del cuore e, nel caso di Jennifer, la solitudine. Le restano solo gli oggetti e le fantasie a cui aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto, nelle mancanze, nelle ansie, nelle angoscia. L’estetica del Kitsch è finzione, così Jennifer finge con gli altri e con se stessa fino alle estreme conseguenze, respinge dal proprio campo visivo ciò che è essenzialmente inaccettabile. In tal senso è una vera attrice, perché finge talmente bene da essere vera.

Gabriele Russo

dal 7 al 12 marzo 2023 Bologna – Arena del Sole – Sala Salmon
21 marzo 2023 Eboli – Teatro Italia
22 marzo 2023 Agropoli – Teatro Eduardo
23 marzo 2023 Capua – Teatro Eduardo
dal 24 al 26 marzo 2023 Caserta – Comunale di Caserta – Teatro Parravano
dall’11 al 16 aprile 2023 Roma – Teatro Vascello

Scheda di produzione
Rassegna stampa
Foto
Trailer
Visual

Gabriele Russo, regista di “Le cinque rose di Jennifer” andato in scena al Teatro Bellini, affida la “nuova” Jennifer alla complessa invenzione di Daniele Russo che, nel suo rapido e disperato trasformarsi, nella sua insofferenza di maschio, nella sua disperata rincorsa verso una femminilità lussuosa, nel disegno doloroso della inevitabile sconfitta, nel disegno di una solitudine senza scampo, si conferma originale ed eccellente protagonista del nostro teatro. Molti attori hanno cercato il senso ed il suono di Jennifer. Daniele Russo se ne è impadronito ora, con un dolore ed una passione coinvolgente, restituendocene l’illusione malata, dilatandola fino a mettere in scena la solitudine di una generazione incerta, cui sfuggono confini, geografie, storia ed amore. […]
[…] Testo “cult” del teatro italiano, scrittura d’impatto sicuro, gioco perfido di illusioni e sconfitte, thriller senza sbocco e senz’altra storia che quella di una illusione, di un’attesa disperata, di una violenza interiore, di un assedio malato, questa messa in scena de “Le cinque rose di Jennifer” realizzata al Bellini è si storia una telefonata che non arriverà mai, ma è immagine forte di solitudine senza scampo. E Daniele Russo, con il trucco disfatto nell’angoscia lussuosa del suo abito rosso, creato, come tutti gli altri costumi, da Chiara Aversano, è iperbole ed immagine da non dimenticare.

Giulio Baffi – la Repubblica 27 ottobre 2019

Don Juan in Soho

Durata 90 minuti

Don Juan in Soho è un adattamento del Dom Juan ou Le Festin de pierre di Molière (Don Giovanni o il convitato di pietra) che l’autore britannico Patrick Marber ha realizzato nel 2006 — e poi rimaneggiato nel 2016 — portandolo in scena al Wyndham’s Theatre di Londra.
Protagonista, l’attore scozzese David Tennant, noto al grande pubblico per serie di successo come Doctor who, Broadchurch, Jessica Jones, ma soprattutto per il ruolo nel quarto episodio della saga di Harry Potter.
Patrick Marber è un autore di successo cinquantacinquenne piuttosto fuori dal comune (ha ricevuto diversi premi teatrali e una nomination agli Oscar), ha al suo attivo circa una decina di testi, scritti dal 1995 fino ai giorni nostri. La caratteristica principale dei suoi lavori è quella di innestare con grande disinvoltura il linguaggio comico-cabarettistico in strutture e personaggi mutuati da testi più o meno classici.

È il caso di Don Juan in Soho, in cui Marber rispettando la struttura del Don Giovanni di Moliere, o per meglio dire, ritagliandone il calco, lo trasferisce nella realtà della Londra di oggi e di un preciso nonché famigerato quartiere del West End: Soho, la zona a luci rosse!
Questo teatro naturale fa da scenario alle vicende di DJ, il nostro Don Giovanni, che incarnando molti degli archetipi del maschio contemporaneo medio, un fascinoso antieroe, una figura moralmente deprecabile e ambigua, finisce però col risultare straordinariamente unico nella sua potente radicalità, nel suo essere estremo, punk.

In altre parole, l’attualità e la forza del personaggio disegnato da Marber sta nella sua capacità di vivere fino in fondo ciò che gli altri recitano male. Vale a dire, che molti oggi nella società del divismo di massa e dell’ostentazione a ogni costo, vogliono fare i Don Giovanni, ma pochi,riescono ad esserlo veramente e pochissimi ne accettano fino in fondo le conseguenze.

Molière è uno di quegli autori che è stato contemporaneo al suo tempo. I suoi testi e le sue interpretazioni, dato che era un famosissimo attore, erano certamente molto divertenti, poco confortanti e spesso piuttosto volgari. O per meglio dire, utilizzavano un linguaggio molto vicino a quello delle persone comuni: in pratica Molière faceva satira, una satira molto feroce e senza sconti.

Già dai tempi in cui ho messo in scena Il Misantropo (2007) ho sentito che in quest’autore c’erano incredibili possibilità di riscrittura. L’ipocrisia, l’indifferenza, lo squallore che Molière sapeva raccontare, esibire, con magistrale naturalezza, non solo possono essere portati nel presente, ma possono essere spinti molto in avanti.
In altre parole, portando in scena un Molière ti accorgi che, mentre i tuoi attori recitano, lo fanno comunque meno di quanto loro stessi farebbero nella vita vera in quelle stesse situazioni.

È esattamente per questo motivo che si è fatta strada in me una consapevolezza più generale su questo tipo di messinscene. In pratica qui l’autore funge, oltre che da drammaturgo che riadatta, ma che poi finisce col riscrivere un testo classico, anche da dramaturg: fa un’operazione di riscrittura capace di riconsegnare un classico archetipo come quello di Don Giovanni al pubblico di oggi, riconnettendo letteralmente un testo del ‘600 a un suo presente, il nostro. Portando a compimento un lavoro di riscrittura che non allude ma, semplicemente, è. Pertanto la chiave della mia messinscena più che giocare sulle ambientazioni, sullo scenario (che comunque resta un elemento centrale, presente persino nel titolo) si concentra e riflette sulla recitazione, o meglio sulle recitazioni possibili in un simile testo. O ancora meglio, sulla lingua, sui tanti modi possibili e qui necessari di porgerla attraverso gli slang, le cadenze specifiche, gli accenti locali. Come in un impasto o se si vuole un ventaglio ricco ma coerente.
Questo è per me il punto in cui si gioca la credibilità, il patto di verosimiglianza con il pubblico. Un filo più che mai sottile che paradossalmente risulta più complesso da ottenere quando si mette in scena un testo classico che utilizza il voi e termini e modi ormai desueti.

Sarà una messinscena che pur non rinunciando alla “forma teatro” giocherà la sua partita tutta nel rapporto con il pubblico. Nella smaccata riconoscibilità dei segni e dei personaggi, rinunciando apparentemente alla metafora e lasciando che essa sia sotterranea. Lavorando su un primo livello di fruizione che non abbia il timore di essere pienamente popolare. Di parlare al presente, senza filtri. In definitiva, la scelta di portare in scena questo testo, dopo sedici mesi di chiusura, non può non essere condizionata dal vissuto dell’ultimo anno e mezzo e dalle riflessioni sulla funzione del teatro che ne sono conseguite.
Edonismo, narcisismo, necessità di godere a ogni costo, desiderio di desiderio… Don Giovanni è un emblema di ciò che è inaccettabile, c’è però una radicalità nuova nel suo personaggio: quella di non recitare un ruolo ma di esserlo.
Allo stesso modo diventano radicali e corrispondenti al presente le domande che porta con sé questo specifico modo di agire: pur di sopravvivere e mantenere un’apparenza di vita immutata rispetto al passato, fino a che punto sono disposto a sacrificare le mie libertà? E fin dove è circoscritto il campo della libertà individuale se va a ledere la libertà altrui? Quanto costa agli altri – e oserei dire al pianeta – la libertà delle proprie azioni? Infine, tornando più semplicemente al testo, fino a che punto un DJ ha diritto di vivere e agire come meglio crede, a discapito di tutto e tutti?

Il DJ di Marber, come il Don Giovanni di Molière, decide di farsi ammazzare pur di non tradire se stesso, di non rinunciare alla sua libertà, ai suoi vizi, alla sua morale perversa. Ciò nondimeno potremmo dire che DJ resta, anche nella versione di Marber, narciso, ipertrofico, consumista, manipolatore… 
Lo Sganarello di Molière, Stan nella versione di Marber, ne è il rovescio della medaglia. Moralizzatore, ipocrita, in fondo cedevole al compromesso. Parassitario. Un haters dei nostri tempi. Stan sale con DJ sulla giostra della vita, tradotta scenicamente con Roberto Crea in un grande rettangolo girevole, vivendo da osservatore apparentemente passivo un’altalena di emozioni forti, in cui nella commedia si annida la tragedia e viceversa. E naturalmente il viaggio diventa anche e soprattutto il viaggio di DJ nell’universo femminile, il suo mondo oggetto. Un universo descritto con altrettanta crudezza da Molière e ancora da Marber in cui la sola iconica Elvira, che io vedo come una Carola Rakete dei nostri giorni, e descritta da Marber come un’attivista impegnata nella difesa di un ecosistema sostenibile, ne esce, dopo la devastante esperienza con DJ, come una donna più consapevole e pronta, una donna nuova. Tutt’intorno, in commedia, il caleidoscopio di tipi umani, le escort, l’arrivista, la radical chic a strutturare un contesto visivo che non rinunci alle derive estetiche dettate dalla moda e da ciò che può sembrarci volgare ma non è altro che mainstream.

In conclusione, credo che la lettura di questo Don Giovanni non si inscriva nella tradizione delle riletture di questo testo, da Molière, a Mozart a Tirso de Molina… non è questa la pista, non è questo il filo interpretativo. Piuttosto è nella figura intrinseca di un tipo come Don Giovanni oggi che sento un abbrivio alla nostra epoca. È la sua identità nel presente che lo fa essere contemporaneo e da cancellare?

17 e 18 dicembre 2022 Sulmona – Teatro Maria Caniglia 
dal 19 al 22 gennaio 2023 Genova – Teatro Ivo Chiesa 
dal 24 al 29 gennaio 2023 Torino – Teatro Stabile di Torino – Fonderie Limone
31 gennaio e 1 febbraio 2023 Parma – Teatro Due
dal 3 al 5 febbraio 2023 Firenze – Teatro Puccini 
dal 21 al 26 febbraio 2023 Milano – Teatro Elfo Puccini

Scheda di produzione
Rassegna stampa
Foto
Materiali audiovisivi
Visual

[…] L’allestimento diretto da Gabriele Russo funziona, grazie a un ritmo sostenuto e un impianto scenico indovinato, un girevole su cui passano e si stagliano personaggi in una specie di danza un po’ macabra. Molte caratterizzazioni inoltre sono gustose – lo Stan di Alfonso Postiglione, il Louis di Mauro Marino – intorno all’inesauribile Daniele Russo, un narciso negativo da cui ci si lascia, per quanto inorriditi, affascinare.
Masolino D’Amico, La Stampa

[…] Si canta, si balla, si copula, ci si diverte, si corre e si rincorre la vita insomma, quella patinata da rotocalco scandaloso o scandalistico, quella falsa dei sogni di tanti e vera nella realtà di pochi. E Gabriele Russo tutto questo l’ha ben orchestrato nel gioco rapido lieve e lucidamente ironico del suo spettacolo, con bella prova come s’è detto di Daniele Russo e Alfonso Postiglione. […]
Giulio Baffi, la Repubblica

[…] Daniele Russo è spudorato e fascinoso quanto basta a renderci simpatico un mostro. […] Perché riesce ad identificarsi mimeticamente nelle feconde contraddizioni del personaggio. […] La regia di Gabriele Russo asseconda la vitalità del personaggio nel dinamismo della messinscena.
Fabrizio Coscia, Il Mattino.

Qualcuno volò sul nido del cuculo

di Dale Wasserman

dall’omonimo romanzo di Ken Kesey
traduzione Giovanni Lombardo Radice
adattamento Maurizio de Giovanni

con
Daniele Russo 
e con
Mauro Marino
Viviana Lombardo
Giacomo Rosselli
Emanuele Maria Basso
Alfredo Angelici
Daniele Marino
Gilberto Gliozzi 
Gaia Benassi
Sergio Del Prete
Antimo Casertano
Renato Bisogni

Aiuto regia Emanuele Maria Basso/ Assistente alla regia Gaia Benassi/ Foto di scena Francesco Squeglia/ Direttore di allestimento Antonio Verde/ Macchinista Francesco Rubinacci/ Fonico Diego Olimpo/ Datore luci Alessandro Caso, Luca SabatinoSarta Anna Marino/ Scenotecnica Shaper Scene srl – Pomezia/ Costumi RO.CA.GI – Ercolano/Vintage shoes – Ercolano/sartoria Ottaviano – Roma/ Service luci e fonica MacService/ Trasporti Celani/ Ufficio stampa Katia Prota/ Ufficio produzione Noemi Ranaulo, Giuseppe Maisto/ Distribuzione Patrizia Natale/ Organizzazione generale Roberta Russo

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo

Qualcuno volò sul nido del cuculo è il romanzo che Ken Kesey pubblicò nel 1962 dopo aver lavorato come volontario in un ospedale psichiatrico californiano. Narra, attraverso gli occhi di Randle McMurphy, uno sfacciato delinquente che si finge matto per sfuggire alla galera, la vita dei pazienti di un manicomio statunitense e il trattamento coercitivo che viene loro riservato. Nel 1971 Dale Wasserman ne realizzò, per Broadway, un adattamento scenico, che costituì la base della sceneggiatura dell’omonimo film di Miloš Forman, interpretato da Jack Nicholson e entrato di diritto nella storia del cinema. Oggi, la drammaturgia di Wasserman torna in scena, rielaborata dallo scrittore Maurizio de Giovanni, che, senza tradirne la forza e la sostanza visionaria, l’avvicina a noi, cronologicamente e geograficamente. Randle McMurphy diventa Dario Danise e la sua storia e quella dei suoi compagni si trasferiscono nel 1982, nell’Ospedale psichiatrico di Aversa. Alessandro Gassmann, dirigendo un cast eccezionale, dà vita ad un allestimento personalissimo, elegante, contemporaneo, il cui risultato è uno spettacolo appassionato, commovente e divertente, imperdibile, per la sua estetica dirompente e per la sua forte carica emotiva e sociale. 

La malattia, la diversità, la coercizione, la privazione della libertà sono temi che da sempre mi coinvolgono e che amo portare in scena con i miei spettacoli. Temi tutti straordinariamente presenti nello spettacolo che mi accingo a mettere in scena, “Qualcuno volò sul nido del cuculo” di Dale Wasserman, tratto dall’omonimo romanzo di Ken Kesey, la cui versione cinematografica diretta da Miloš Forman è entrata di diritto nella storia del cinema. 

Con Maurizio de Giovanni, che ha curato l’adattamento del testo, abbiamo deciso di ambientare la vicenda in una clinica psichiatrica italiana nel 1982. Tutto ha inizio con l’arrivo di un nuovo paziente che deve essere “studiato” per determinare se la sua malattia mentale sia reale o simulata. La sua spavalderia, la sua irriverenza e il suo spirito di ribellione verso le regole che disciplinano rigidamente la vita dei degenti, porterà scompiglio e disordine ma allo stesso tempo la sua travolgente carica di umanità contagerà gli altri pazienti e cercherà di risvegliare in loro il diritto di esprimere liberamente le loro emozioni e i loro desideri.

Dario (il mio McMurphy) è un ribelle anticonformista che comprende subito la condizione alla quale sono sottoposti i suoi compagni di ospedale, creature vulnerabili, passive e inerti. Da quel momento si renderà paladino di una battaglia nei confronti di un sistema repressivo, ingiusto, dannoso e crudele, affrontando così anche un suo percorso interiore che si concluderà tragicamente ma riscatterà una vita fino ad allora sregolata e inconcludente. E, attraverso di lui, i pazienti riusciranno ad individuare qualcosa che continua ad esser loro negato: la speranza di essere compresi, di poter assumere il controllo della propria vita, la speranza di essere liberi.

Un testo che è una lezione d’impegno civile, uno spietato atto di accusa contro i metodi di costrizione e imposizione adottati all’interno dei manicomi ma anche, e soprattutto, una straordinaria metafora sul rapporto tra individuo e Potere costituito, sui meccanismi repressivi della società, sul condizionamento dell’uomo da parte di altri uomini. Un grido di denuncia che scuote le coscienze e che fa riflettere. 

Come sempre lavorerò sui complessi rapporti psicologici tra i vari personaggi, immergendoli in uno spazio scenico realistico e asettico. 

In questo caso, le videografie, che spesso utilizzo nei miei spettacoli, mi permetteranno di tradurre in immagini i sogni e le allucinazioni dei cosiddetti “diversi”. L’obiettivo che mi pongo è, come sempre, quello di riuscire a far emozionare un pubblico di ogni età, soprattutto i più giovani che forse non conoscono quest’opera che è un vero e proprio inno alla libertà.

Alessandro Gassmann

dal 20 al 30 ottobre 2022 Palermo – Teatro Biondo
dal 3 al 13 novembre 2022 Roma – Sala Umberto
29 novembre 2022 Narni – Teatro Manini
30 novembre 2022 Montegiorgio – Teatro Alaleona
dall’1 al 4 dicembre 2022 Ancona – Teatro delle Muse

Scheda di produzione
Rassegna Stampa
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“I titoli sono spesso un richiamo, ma Alessandro Gassmann non ha teatralizzato il film Qualcuno volò sul nido del cuculo. […] L’obiettivo dello spettacolo è, tra energia poetica e congestionato (anche troppo) impegno, qualcosa che fa pensare a La corsia n.6 di Cechov e La pecora nera di Ascanio Celestini.”

Rodolfo di Giammarco, la Repubblica

“[…] la solitudine, l’infelicità, l’inadeguatezza, la voglia e l’impossibilità di vita e di libertà, o almeno di un cambiamento, anche minimo, pur senza la rassegnazione di una condizione che, forse, non può mutare. Sebbene rassicurato dal fatto stesso di assistere a una rappresentazione teatrale, sono sensazioni queste che la regia di Gassmann non lascia nel vago e di cui resta traccia nello spettatore se non altro perché si accordano con l’attualità.”

Valeria Chianese, Avvenire

“[…] Qualcuno volò sul nido del cuculo rappresenta una proposta di notevole chiamata per più interessi, sia dovuti a una popolarità in origine, sia a richiami intercettati da questa versione. […] Lo spettatore scorgerà sogni falliti, slanci anomali, miraggi femminili surreali, fino a un epilogo di grosso, travolgente effetto. Dimenticatevi i film, questo è un lavoro dal vivo.”

Rodolfo di Giammarco, Roma

La Cupa

LA CUPA
Fabbula di un omo che divinne un albero

versi, canti, drammaturgia e regia Mimmo Borrelli

con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Rossella De Martino, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Roberta Misticone

scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
disegno luci Cesare Accetta
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
foto di scena Flavia Tartaglia

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Lo spettacolo ha debuttato al Teatro San Ferdinando di Napoli il 10 aprile 2018, prodotto dal Teatro di Napoli-Teatro Nazionale

La Cupa di Mimmo Borrelli si svolge in una notte, quella di Sant’Antonio e il suo fucarazzo, quando secondo gli antichi, gli animali potevano parlare agli uomini, ma con un prezzo da pagare, sventura e dannazione. Ma Innocente Crescenzo e il suo maiale non possono che espiare, da sopravvissuti, ogni anno le sorti della degenerazione umana. Una “favola” di uomini che come gli animali agiscono, ma con “lo sterco della ragione”, e animali che invece agli istinti sottopongono la ragione impossibilitati ad agire in modo perverso.

Tutto viene evocato in una notte, nella notte di Sant’Antonio e il suo fucarazzo, quando secondo gli antichi, gli animali potevano parlare agli uomini, ma con un prezzo da pagare, chi li ascoltava aveva in dote sventura e dannazione. Ma Innocente Crescenzo e il suo maiale Ciaccone non possono che espiare, da sopravvissuti, ogni anno le sorti di una saga bastarda della degenerazione umana: favola di uomini che come gli animali agiscono, ma con lo sterco della ragione e gli animali che agli istinti sottopongo la ragione non possono che agire in modo perverso.

 La trama è un fittizio e afflitto mondo altrove dove si scontrano i pianeti porosi di una saga dalle colpe sepolte tra anfratti, strati geologici, fatti aneddoti ed incavi, il cui confine della memoria è smunto e levigato, da anni, venti malsani ed epoche di misfatti e di peccati originali. 

Trama incastonata nel cuore buono e generoso un tempo, del suo protagonista in negativo Giosafatte ’Nzamamorte: sempre attento al prossimo, ma comunque sia, morto dall’amarezza e la fuliggine in cristalli di tufo porosi di rettitudine. Un uomo buono, retto, sorretto dalla coscienza di un passato inquieto, indecifrato, burrascoso, folle dal quale ha preso distanza, con il rispetto verso la dimenticanza di una memoria sepolta. Memoria, la quale se scavata, come i blocchi che di giorno in giorno vengono estratti dalla sua cava restituendone, in calce morta, cadaveri, potrebbe esplodere e franare in modo dirompente.

La memoria è la famiglia perduta di Giosafatte ’Nzamamorte e la sua moglie Bianca.
Quella dei figli di Giosafatte violentati e uccisi, vent’anni prima a sua insaputa, dal suo più acerrimo amico, ignoto nemico Tommasino Scippasalute.
Quella di Scippasalute la sua pedofilia e l’odio riposto e celato nei confronti dell’eterno amico Giosafatte, amico dell’infamia e beone di sventura.
Lo scontro atavico e dalle difformi e dilavanti collere in frana, delle famiglie e degli antenati di Tommasino Scippasalutedefraudati e ridotti alla rovina dalla famiglia ’Nzamamorte.
Quella del suicidio di Maria delle Papere, figlia di Giosafatte.
Quella della follia di ’Nzamamorte, una volta perduti i figli e moglie suicida, per sua imperdonabile negligenza: dell’elaborazione di un traffico di organi di bambini, cresciuti ed allevati per divenire cavie e carcasse in carne di un lucroso e deplorevole orrore.
Quella delle povere donne dell’est contattate e fecondate a pagamento, per divenire involucri, incubatrici in orge “baccaiate” dal tufo, di organi da rivendere al mercato.

Scippasalute è un intagliatore abilissimo, un mastro sia scalpellino (masto attuzzature), che “per pensamento”, cioè sa individuare seguendo il suo infallibile fiuto dove intagliare i blocchi di tufo di una qualsiasi cava, in termini sia di sicurezza per i “cavatori”, evitandone smottamenti e frane, che di utilità geografica e logistica attraverso l’arte del “pezzamento”. Un tempo, suo nonno Sanzone, era il possessore di quella cava, ma andato in disgrazia, per la perdita di un braccio dovette rivenderla al padre di ’Nzamamorte, per i troppi debiti. Una vita spesa a pagare un debito senza riavere la terra a te tolta, la terra, la polvere alla quale tornerai e che nel suo sporco rende visibili gl’invisibili, quella terra vista e concepita come una moglie, na zita da sposare, intoccabile e sacra. Da allora tale sfregio d’onore è rimasto sopito in Scippasalute, seppur sottopelle. Vuole ripossedere tutto, ripossedere, sottrarre blocco per blocco ogni bene, per tramutarlo, ricostruirlo pietra per pietra, catozza per catozza, pretecagna per pretecagna, in orditi di male. Ripossedere la vita di stenti mancata e amputata dalle fatiche.

Nella cava si aggira, da alcuni tempi, una sorta di clochard, un barbone obeso dalla vita, sempre con i suoi giornali e quotidiani, finanche una radiolina che cerca di continuo di regolare al cielo, un uomo misterioso, ma bonario, dalla fisicità inquietante, ma lo sguardo innocente di bambino, dalla personalità a tratti lucidissima, dalla mole “orsuta” nella sua andatura dinoccolata e sorniona, a tratti, assolutamente intrattabile, causa la sua propensione al bere vino e vino scadente che nella cava, i dipendenti “cavatori” e “tagliamonti” gli forniscono di solito. Intelligentissimo e acculturato dice di essere fuggito da un seminario in cui da bambino era stato sottratto dalla strada avviato agli studi umanistici, da alcuni monaci illuminati, presso Foggia; detto il latinista, sempre prodigo di massime tra il cinico e la vitalità dell’amarezza, si auto presenta sempre allo stesso modo:
Innocente Zacchiele Crescenzo.
Uomo di pace e di buon senzo.

È molto amico di ’Nzamamorte, parla spesso con lui di teologia e filosofia di vita: accomunati entrambi da un passato inconoscibile, sembrano essere legati da un affetto burbero, ma quasi reciprocamente familiare; terribilmente scortese e snob con tutti gli altri cavatori della cava, con lui gli s’illuminano gli occhi. È anche e soprattutto legatissimo a Maria delle Papere, ha con lei un atteggiamento protettivo, quasi fraterno che malignamente, dalle voci traverse della cava viene spesso frainteso come un amore a dir poco fuligginoso e deviato, ma non è propriamente così.

Innocente Crescenzo è disperato, lui è il testimone di una tragedia sepolta nel tempo, lui un Edipo/Oreste tornato, non per uccidere il padre, ma per riconoscerlo e riconoscersi nel figlio scomparso, anche per morire per lui, anche per vendicarsi per lui e vendicarsi di un male vecchio di trent’anni. Ecco le radici dell’ultimo duello, in cui si evince un peccato originale che non potrà mai essere lavato, ma solo in parte vendicato. Innocente Crescenzo, altro non è che Giuseppe il più grande, di tre fratelli, il secondogenito Mimmo e la neonata da pochi mesi Maria, tutti figli di Giosafatte ’Nzamamorte. Siamo alla fine degli anni 50, Giosafatte aveva appena ventidue anni e si era da poco sposato con Bianca. I due coniugi con fatica e stenti, in pochi anni erano riusciti a edificare una casetta su un podere all’isola di Procida di fronte alla Cava che affaccia sul litorale di Torregaveta. Lì, in quell’angolo immutato e immacolato di paradiso, volevano trasferire le loro gioie, i loro tre angioletti, per tenerli lontani e immacolati da qualsiasi empietà e credenza localistica e provinciale, volevano crescerli nel benessere e a distanza dalle sofferenze della comunità. Ma quel giorno Giosafatte fece male i conti: lasciò Bianca e Maria a terra e partì prima con i due figliocci rispettivamente di cinque e otto anni poi tornò a Torregaveta, per recuperare il resto della famiglia. Solo otto anni aveva Crescenzo fu Giuseppe, solo otto anni, per combattere di già con i lupi, perché un maltempo imprevisto e incredibile costrinse Giosafatte a rimanere a terra al secondo viaggio. Ma ancora una volta quel diavolo di Scippasalute ubriaco e beone, manomise la barca dell’amico e s’insinuò nella casa, dove per tre giorni seviziò i due bambini, portandone uno alla morte per fame e stenti, l’altro invece, Crescenzo fu Giuseppe, al secondo giorno scomparve, rifugiandosi in una nave da carico adibita al trasporto del tufo diretta in Puglia.
Al ritrovamento del cadavere di Mimmo e la scomparsa di Giuseppe, Bianca impazzisce, prima accecando in modo irrecuperabile la figlia Maria, poi togliendosi la vita scaraventandosi dalla montagna di Miseno. ’Nzamamorte rimane unico custode di questo osceno misfatto. Lì rinnegando la sua paternità malsana, causa secondo lui di tutto ciò, decide di crescere la piccola Maria come una sorella. E inizia un’attività illecita circa il traffico di organi di bambini.

La polvere seduce e ricopre il monte, una cupa, una cava ricolma di morti che tornano.
Il destino vuole che Maria delle Papere di innamori del figlio di Scippasalute, da qui si avrà un nuovo inizio, quasi l’eterna saga del male contro il bene, che culminerà con una punizione della natura sull’uomo e le sue derive.
Crolla la cava, crolla il mondo, sotto le invidie di una società che non può più sostenersi sui pilastri dell’amore verso il prossimo, un amore sommerso dal dilavamento delle coscienze e dalla pioggia insistente della natura umana che tutto smuove male, neanche sottosopra come la natura farebbe nel rimettere le cose al suo posto.

Mimmo Borrelli

dal 16 al 20 novembre 2022 Torino – Fonderie Limone
dal 10 al 14 maggio 2023 Milano – Piccolo Teatro di Milano

Scheda di produzione
Rassegna Stampa
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“Lo spettacolo più importante degli ultimi tre decenni. Uno dei tre capolavori del teatro Napoletano assieme a Gatta Cenerentola e Filumena Marturano”
Franco CordelliCorriere della Sera

“Capolavoro assoluto che cambia le sorti della scena”
Rodolfo Di GiammarcoRepubblica

“La cupa. Rituale primigenio di bellezza. Un pozzo senza fondo di sapienza e poesia teatrale […]  lo spettacolo più forte e violento degli ultimi anni […] Barbarico. Non c’è in esso un gesto, un movimento, un solo suono che non trasmetta significati.”
Enrico FioreCorriere del Mezzogiorno

Tre modi per non morire

TRE MODI PER NON MORIRE
Baudelaire, Dante, i Greci

di Giuseppe Montesano
diretto e interpretato da Toni Servillo

coproduzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Tre modi per non morire è un viaggio teatrale attraverso tre momenti culminanti in cui alcuni poeti hanno messo in pratica l’arte di non morire, e ci hanno insegnato a cercare la vita: Baudelaire, Dante e i Greci. In una sola serata si intrecceranno Baudelaire in Monsieur Baudelaire, quando finirà la notte? che racconta come la bellezza combatte contro la depressione e l’ingiustizia, Dante in Le voci di Dante che racconta come la poesia si trasforma in romanzo e salvezza, i Greci in Il fuoco sapiente che racconta come la poesia e la filosofia accendono una visione che sa immaginare il futuro. Il viaggio teatrale che Servillo compie navigando nelle tre evocazioni di Montesano è un viaggio nella poesia come forma possibile della nostra vita, un viaggio che vuole essere un antidoto alla paralisi del pensiero, alla non-vita che tenta di ingoiarci. I greci hanno inventato il teatro per conoscere sé stessi nel mondo e trovare quel respiro della mente che apre nuovi orizzonti: il teatro di Tre modi per non morire è una via per ritrovare quelle parole che un attore dice con tutto il suo corpo e la sua mente per nutrire la sua e la nostra interiorità. Siamo inquieti, impoveriti, spaventati, e tutti sentiamo che ci manca qualcosa di cui avremmo un disperato bisogno: ci manca l’amore, ci manca la vita. E allora? E allora non ci resta altro da fare che cercare di diventare vivi.

Aspettando Godot

ASPETTANDO GODOT

di Samuel Beckett
copyright Editions de Minuit
traduzione Carlo Fruttero
regia, scene, luci e costumi Theodoros Terzopoulos
con (in o.a) Paolo Musio, Stefano Randisi, Enzo Vetrano e Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola

musiche originali Panayiotis Velianitis
consulenza drammaturgica e assistenza alla regia Michalis Traitsis
training attoriale – Metodo Terzopoulos Giulio Germano Cervi

produzione Emilia Romagna Teatro / ERT – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Attis Theatre Company

La commedia Aspettando Godot di Samuel Beckett è rappresentata in Italia dall’Agenzia D’Arborio

I personaggi beckettiani si muovono in una zona grigia, in un paesaggio del nulla, quello dell’annientamento dei valori umani. Qualsiasi tentativo di umanizzazione cade nel vuoto, il concetto di tempo è fluido, i personaggi sono sospesi nel vuoto come esistenze espropriate, in un vuoto di disposizioni sconosciute dove l’annientamento di tutte le posizioni, dei valori e delle certezze, è stato realizzato. Il sarcasmo alla ricerca di una fine che non ha fine è l’espressione dominante degli esercizi di sopravvivenza dei personaggi. Essi cercano la fine della fine, che tuttavia non arriva mai. Ogni nuovo inizio è la definizione di una nuova fine. Pessimismo estremo. I personaggi tacciono aspettando la rivelazione dell’indicibile, che non si rivela mai.
Alcune domande che riguardano la natura umana e il futuro forse avranno risposte, la maggior parte però no. Forse alcune di queste domande avranno risposte dagli stessi spettatori. Inoltre, l’arte del teatro esiste e persiste proprio in virtù delle domande senza risposta.
Con gli straordinari attori Enzo Vetrano, Stefano Randisi, Paolo Musio, i promettenti giovani Giulio Germano Cervi, Rocco Ancarola e il collaboratore alla drammaturgia Michalis Traitsis c’è stata un’ottima collaborazione, piena di entusiasmo e acuta curiosità per tutto ciò che riguarda questo testo liminale, il quale, oggi più che in ogni altra epoca, come tutti i testi che hanno un nucleo ontologico, può generare nuove idee per lo sviluppo del teatro.

Il nostro Aspettando Godot va in scena sulle rovine del mondo, in un futuro più o meno vicino a noi, in un luogo in cui tutte le ferite del presente e del futuro sono acuite. Lo stesso succede per le speranze. In questo confine dell’esistenza umana, quali sono le condizioni minime possibili per tornare a vivere di nuovo, per pensare a una vita che valga la pena di essere vissuta.
In Aspettando Godot vengono date due risposte possibili, e da qui vogliamo far partire il nostro lavoro. La prima è il tentativo di comunicare e coesistere con l’Altro, colui che ci è prossimo, nonostante gli ostacoli, anche quando questi sembrano insuperabili. La seconda è il tentativo di mettersi in comunicazione con l’Altro dentro di noi, quest’area buia e imperscrutabile densa di desideri repressi e paure, istinti dimenticati, regione dell’animalesco e del divino, in cui dimorano la pazzia e il sogno, il delirio e l’incubo. Questo è il viaggio che cercheremo di fare: verso l’Altro dentro di noi e verso l’Altro al di fuori di noi, all’opposto, lontano da noi. Questo è il viaggio che proviamo a fare ogni giorno. Aspettando cosa? La redenzione della vita dai vincoli della morte? L’incontro con l’Umano, la fine di ogni atto di umiliazione inflitto da uomo a un altro uomo? Il Niente o l’Attesa, per usare i termini ironici e beffardi di Beckett?
Ma esiste forse un altro modo per immaginare l’umanità emancipata, senza dover ricorrere all’abbattimento dei muri che separano questo “dentro” da questo “fuori”?

Theodoros Terzopoulos

L'uomo più crudele del mondo

L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO

testo e regia Davide Sacco

con Lino Guanciale, Francesco Montanari

scene Luigi Sacco
luci Andrea Pistoia
organizzazione Ilaria Ceci

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, LVF, Teatro Manini di Narni

Una stanza spoglia, in un capannone abbandonato. I rumori della fabbrica fuori e il silenzio totale all’interno.
Paolo Veres è seduto alla sua scrivania, è l’uomo più crudele del mondo, o almeno questa è la considerazione che la gente ha di lui. Proprietario della più importante azienda di armi d’Europa, ha fama di uomo schivo e riservato. Davanti a lui un giovane giornalista di una testata locale è stato scelto per intervistarlo, ma la chiacchierata prende subito una strana piega.
“Lei crede ancora che si possa andare avanti dopo questa notte… lei crede che questa vita domani mattina sarà la stessa che viveva prima?” dirà Veres al giornalista.
In un susseguirsi di serrati dialoghi emergeranno le personalità dei due personaggi e il loro passato, fino a un finale che ribalterà ogni prospettiva.

Fino a dove può spingersi la crudeltà dell’uomo? Qual è il limite che separa una brava persona da un bestia? A cosa possiamo arrivare se lasciamo prevalere l’istinto sulla ragione?
Queste domande mi hanno guidato durante la stesura del testo e, successivamente, nella direzione degli attori. Volevamo che il pubblico fosse costantemente destabilizzato e non avesse certezze, che si calasse insieme ai personaggi in un viaggio in cui il rapporto tra vittima e carnefice è di volta in volta messo in discussione e ribaltato.
La “feccia” di cui parlano i protagonisti non è visibile nella scena, fatta essenzialmente di luci fredde e asettiche, ma deve emergere gradualmente fino al finale, in cui speriamo che il titolo dello spettacolo possa diventare nella testa degli spettatori non più un’affermazione ma una domanda per riflettere sulla natura del genere umano.

Davide Sacco

26 novembre 2022 Ortona – Teatro Tosti
27 novembre 2022 Castel Fiorentino – Teatro del Popolo
dal 30 novembre all’11 dicembre 2022 Roma – Teatro Ambra Jovinelli
10 marzo 2023 Urbino – Teatro Sanzio
11 e 12 marzo 2023 Macerata – Teatro Lauro Rossi
14 e 15 marzo 2023 Sarzana – Teatro Impavidi
16 marzo 2023 Montepulciano – Teatro Poliziano
17 marzo 2023 Cassino – Teatro Manzoni
18 marzo 2023 Montalto di Castro – Teatro Lea Padovani
19 marzo 2023 Teramo – Teatro Comunale
15 e 15 aprile 2023 Chieti – Teatro Marrucino

Sei personaggi in cerca d’autore

SEI PERSONAGGI IN CERCA D’AUTORE

di Luigi Pirandello

con (in ordine alfabetico)

Valerio Binasco, Giovanni Drago, Giordana Faggiano, Jurij Ferrini
regia Valerio Binasco

coproduzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Un classico del teatro di Luigi Pirandello che, ancora oggi, riesce a riproporre il valore e la tensione che attraversano i poli di un palcoscenico: parole e regia, interpretazione e vita reale. Nella storia, apparentemente scontata, di questa famiglia spezzata, Binasco ritrova gli elementi che caratterizzano la propria poetica: i fili sottili che regolano i rapporti umani e le loro fragilità, la ricerca della vera sostanza dell’essere umano e la forza di quella sfida attoriale che mira a restituirci l’essenza più intima della nostra collettività. Arte e vita, umanità e maschere, compongono qui il centro di una crisi, che investe il concetto stesso di identità e, allo stesso tempo, rivela la debolezza di un’industria culturale sempre più legata al denaro.

Kobane Calling On Stage

KOBANE CALLING
ON STAGE

tratto dall’opera omonima di ZEROCALCARE

adattamento e regia Nicola Zavagli
con Massimiliano Aceti, Fabio Cavalieri, Marco Fanizzi, Michele Lisi, Carlotta Mangione, Alessandro Marmorini, Cristina Poccardi, Marcello Sbigoli, Pavel Zelinskij
e con Niccolò Tacchini, Martina Gnesini, Francois Meshreki, Matilde Zavagli

musiche originali Mirko Fabbreschi
video design Cosimo Lorenzo Pancini
maschere Laura Bartelloni

assistente alla regia Cristina Mugnaini
luci Giovanni Monzitta
fonica Alice Mollica
costumi Cristian Garbo

direzione artistica Teatri d’Imbarco, Beatrice Visibelli, Nicola Zavagli
direzione organizzativa Teatri d’Imbarco Cristian Palmi
direzione artistica Cristina Poccardi

distribuzione e progetti collaterali Antonella Moretti
organizzazione Patrizia Natale

Graphic Novel Theater è un progetto di Lucca Crea

produzione Lucca Comics, Teatri d’Imbarco, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con Bao Publishing

Kobane Calling è un fumetto dell’autore italiano Zerocalcare: un reportage in forma grafica del viaggio che lo ha portato al confine tra la Turchia e la Siria a pochi chilometri dalla città assediata di Kobanê, tra i difensori curdi del Rojava, opposti alle forze dello Stato Islamico. Un atto di solidarietà verso chi ogni giorno in Siria mette a rischio la propria vita, nato nell’ambito di Lucca Comics&Games su impulso del regista e drammaturgo Nicola Zavagli, che da anni persegue con l’attrice Beatrice Visibelli e la compagnia Teatri d’Imbarco un teatro popolare d’arte civile. Dopo aver venduto cento ventimila copie in Italia ed essere stato tradotto in francese, inglese, spagnolo, tedesco, portoghese e norvegese, Kobane Calling è diventato un atipico documentario teatrale. Uno spettacolo che non spettacolarizza la guerra, ma la racconta grazie a una originalissima commistione di linguaggi. È un vero e proprio atto d’amore del teatro nei confronti del mondo poetico e comicissimo dell’autore, non è solo la trasposizione di una graphic novel, ma un’opera inedita che, partendo dalle pagine del fumetto, le trasforma sul palcoscenico in un autentico cortocircuito di emozioni, perché racconta con spietata leggerezza la verità brutale di un conflitto troppo spesso dimenticato. Un lavoro che si mantiene pericolosamente in bilico tra cronaca del nostro tempo e l’immaginario fumettistico.

Trasformare Kobane Calling in uno spettacolo è stato un processo difficile ma entusiasmante. Mi ha consentito di toccare contemporaneamente le corde del grottesco e dell’impegno. Per un mese ho studiato con attenzione il materiale. Sono partito da una sceneggiatura con flashback e spostamenti, ricostruendo la linearità dei due viaggi e inserendo poi le citazioni pop e i siparietti surreali: elementi fondamentali per restituire la commistione di piani che rende così ricco e dinamico il fumetto. Il risultato è una grande narrazione corale, con 13 giovani attori in scena, che alterna il dramma alla commedia, il basso e l’alto, il pop e il civile. In passato ho lavorato molto sui drammaturghi inglesi e irlandesi, che spesso riescono a fondere comicità e violenza, come raramente avviene nel teatro contemporaneo italiano. Qui ho avuto l’opportunità di giocare su più registri: un’occasione preziosa.

Nicola Zavagli

13 novembre 2022 Narni – Teatro Manini
dal 15 novembre al 20 dicembre 2022 Roma – Teatro Vascello

Immacolata Concezione

IMMACOLATA CONCEZIONE

uno spettacolo di Vuccirìa Teatro
da un’idea di Federica Carruba Toscano

drammaturgia e regia Joele Anastasi
con Federica Carruba Toscano, Alessandro Lui, Enrico Sortino, Joele Anastasi, Ivano Picciallo

scene e costumi Giulio Villaggio
light designer Martin Palma
musica originale scurannu agghiunnannu Davide Paciolla
testo musica originale Federica Carruba Toscano

aiuto regia Nathalie Cariolle
collaborazione alla drammaturgia Federica Carruba Toscano
contributo drammaturgico Alessandro Lui

foto Dalia Romeo
video e graphic designer Giuseppe Cardaci
scenotecnica 2C Arte
opere di cartapesta Ilaria Sartini

organizzazione Nicole Calligaris
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
Spettacolo vincitore di Teatro del Sacro V

Sicilia, 1940. Concetta, ragazza silenziosa e innocente, viene barattata dal padre caduto in disgrazia con una capra gravida e affidata a Donna Anna, tenutaria del bordello del paese. Lei, estranea ai piaceri della carne e a qualunque “adulta” concezione della vita, non oppone nessuna resistenza.
Del resto, nessuno le ha mai spiegato cosa voglia dire fare l’amore, nonostante quella parola le piaccia già. Ben presto la fama “della nuova arrivata” raggiunge tutto il paese: ma nessuno sa di preciso quali piaceri regali agli uomini per farli impazzire così tanto.
Malgrado tutti millantino di mirabolanti prestazioni, dentro la stanza del bordello, nessuno di loro l’ha mai toccata. Concetta è vergine. Ha il dono di “sentire” l’anima dei suoi clienti, rendendo possibile la loro fragilità nascosta. Dona loro quello che nessuno sa dargli. Concetta è sicura! Crede che questo significhi fare l’amore: fare la barba o giocare a un due tre stella o offrire il petto per le lacrime del “signorotto” del paese. Non capisce perché il mestiere di prostituta susciti tanto scalpore in paese.
Ma come è possibile raggiungere un angolo di paradiso senza pretenderlo tutto? Ogni uomo vuole Concetta tutta per sé, come fosse un oggetto di inestimabile valore. Solo la memoria e il martirio la renderanno indelebile. Così Concetta potrà diventare santa: quando non apparterrà più neanche a se stessa ma solo alla collettività; quando la sua purezza si eleverà a coscienza; quando la sua potenza, abbandonando il corpo, si imprimerà nella memoria; quando il ricordo di lei, affidato ai tempi che verranno, continuerà a generare amore. Solo allora verrà il tempo di Immacolata Concezione.

Guardare attraverso i personaggi di Immacolata Concezione è come sfogliare le pagine di un vecchio diario e scoprire le oscillazioni più fragili delle loro anime; come avere accesso alla memoria collettiva e storica che abita in noi e genera le nostre più antiche passioni.
Il tempo della storia è il passato che qui si fa molla per il futuro: per riscriverne uno nuovo. E noi, spettatori del mondo di oggi, ci aggrappiamo a qualche ultimo brandello di un passato carico di valori e speranza. Non c’è fiducia nel progresso. Non c’è fiducia nel tempo che verrà. È solo guerra, minaccia di guerra, guerra senza frontiere e senza regole. E noi abbiamo solo bisogno di amore, amore e altro amore.

Joele Anastasi

dal 27 settembre al 2 ottobre 2022 Roma – Sala Umberto
dal 17 al 19 novembre 2022 Firenze – Teatro Rifredi
17 e 18 febbraio 2023 Genova – Teatro della Tosse
17 e 18 maggio 2023 Siracusa – Teatro Comunale di Siracusa
19 maggio 2023 Enna – Teatro Comunale Garibaldi
20 e 21 maggio 2023 Catania – Piccolo Teatro 

Ardore

ARDORE
Il matrimonio tra il Teatro e la Vita 

da un’idea di Annalisa D’Amato
drammaturgia Annalisa D’Amato, Elvira Buonocore, Maria Chiara Montella, Marta Polidoro
regia Annalisa D’Amato

con Mario Ascione, Elvira Buonocore, Francesco Cafiero, Alessandra Cocorullo, Carlo Di Maro, Maria Fiore, Francesco Gentile, Rita Lamberti, Maria Chiara Montella, Raffaele Piscitelli, Marta Polidoro, Riccardo Radice, Stefania Remino, Giuseppe Romano, Alessia Santalucia, Gianluca Vesce
foto Thierry Arensma

una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
con il sostegno di puntozerovaleriaapicella

Il rito antico delle nozze. La liturgia che tradizionalmente legittima le unioni e lega gli amori a un vincolo simbolico, si rivela una straordinaria metafora scenica. Un rituale che, sapientemente scardinato, è capace di rappresentare il rapporto profondo, disordinato e vitale che ci lega al teatro. Ai suoi meccanismi, alle sue architetture. Ai suoi infiniti mondi possibili. 
Uno spettacolo che attinge al linguaggio cerimoniale e eccessivo dell’amore, al vero artificio del teatro. Che allora si rompano le barriere della logica, del criterio e della razionalità. Chissà che queste due parti non si lascino attraversare, infine, l’una dall’altra: Vita e Teatro. 
“Bisogna che lo spettatore abbia la sensazione che davanti a lui si rappresenta una scena della sua stessa esistenza, una scena veramente capitale. Chiediamo insomma al nostro pubblico un’adesione intima e profonda. La discrezione non fa per noi.” Antonin Artaud.
In Ardore Il matrimonio tra il Teatro e la Vita, Annalisa D’Amato dirige gli attori della Bellini Teatro Factory, firmando il testo assieme alle tre allieve drammaturghe.

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“Ardore è una produzione complessa, che vede personaggi originali e divertenti raccontare un’importante metafora dell’uomo che vuole disperatamente far aderire il teatro e la vita, con grande difficoltà perché «la vita chiama sempre, ma il teatro chiede tutto». Eppure riesce a comunicare questo messaggio con leggerezza e varietà, con grandissima potenza e tormentoni originali. Così si passa dalla disperazione di una madre per la striminzita location per il grande giorno della sua piccina, al racconto della prima critica teatrale, da un padre che parla del suo piccolo teatro, no al racconto inaspettatamente serio di un lontano cugino dal marcatissimo accento Texano.”
Chiara LeoneEroica Fenice

Opera Viva

OPERA VIVA

un Progetto Bellini Teatro Factory a cura di Gabriele Russo, Costanza Boccardi e Marina Dammacco

di Elvira Buonocore
con Alessandra Cocorullo, Carlo Di Maro, Stefania Remino, Gianluca Vesce regia Maria Chiara Montella

scene Lucia Imperato
costumi Giuseppe Avallone
disegno luci Maurizio Di Maio
progetto sonoro Alessio Foglia

aiuto regia Mario Ascione
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

un ringraziamento a Pierolorenzo Pisano per il tutoraggio drammaturgico

Le case sono vive. Sono luoghi metamorfici soggetti al divenire. Posti mutevoli in cui l’infanzia semina con euforia. Le case sono piantagioni furibonde, incipit architettonici di un racconto esistenziale che non potendo mai finire, si sfilaccia in una dolorosa intermittenza. 
I tre fratelli, Palma, Alfio e Rosario, si ritrovano presso lo studio di un notaio per la discussione di un atto di compravendita. La loro casa natale, costruita sul versante costiero di una regione imprecisata, viene di fatto svenduta dopo anni di indugi. È la procedura notarile che, autorizzata dalla legge all’invadenza, ricostruisce l’evento. Il ricordo immobile, il macigno che la casa ha conservato e che i suoi abitanti hanno voluto rimuovere. È un assedio di domande, un violento attacco personale: il rogito diventa a poco a poco un processo. Un atto di accusa. Attraverso quella costante, premeditata intermittenza, il passato penetra nel racconto, lo segmenta, lo travolge. Lo spacca in due.

Scheda di produzione
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“Viva e morta, l’opera si realizza a metà tra due mondi: la partenza e il ritorno, l’infanzia e l’età adulta, il presente e la reminiscenza”
Chiara AloiaEroica Fenice

La cosa più rara

LA COSA PIÙ RARA

un progetto Bellini Teatro Factory a cura di Gabriele Russo, Costanza Boccardi e Marina Dammacco

di Marta Polidoro
con Mario Ascione, Francesco Cafiero, Carlo Di Maro, Francesco Gentile, Rita Lamberti, Riccardo Radice, Alessia Santalucia regia Maria Chiara Montella

scene Lucia Imperato
costumi Giuseppe Avallone disegno luci Maurizio Di Maio progetto sonoro Alessio Foglia
foto Flavia Tartaglia

aiuto regia Riccardo Radice
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
un ringraziamento a Pierolorenzo Pisano per il tutoraggio drammaturgico

In un futuro non troppo lontano, l’umanità è minacciata dalla diffusione di suicidi di massa. Ad una velocità inarrestabile, milioni di persone si uccidono. Per questo, gli enti governativi decidono di sottoporre la popolazione ad un particolare programma di sedazione. Ma due autori, V. e O., vogliono scrivere una storia, che restituisca a tutti la speranza; per farlo, si servono di cinque attori non professionisti, chiusi nello stesso luogo per rispondere alla grande domanda: quale storia va raccontata per far sì che continuiamo a scegliere la vita? Da qui nasce La cosa più rara.

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“Una pièce ben fatta, che si conclude con una nuova alba per l’umanità, che vuole sensibilizzare il pubblico alla propria vita e a quella del prossimo, che invita ad ascoltare e che lascia che La cosa più rara sia proprio una ragione per vivere.”
Chiara LeoneEroica Fenice

Natale in Casa Cupiello

NATALE IN CASA CUPIELLO
Spettacolo per attore cum figuris

di Eduardo De Filippo

da un’idea di Vincenzo Ambrosino e Luca Saccoia
con Luca Saccoia
regia Lello Serao
spazio scenico, maschere e pupazzi Tiziano Fario

manovratori Salvatore Bertone, Paola Maria Cacace, Lorenzo Ferrara, Oussama Lardjani, Irene Vecchia
formazione e coordinamento manovratori Irene Vecchia

luci Luigi Biondi e Giuseppe di Lorenzo costumi Federica del Gaudio
musiche originali Luca Toller
realizzazione scene Ivan Gordiano Borrelli assistente alla regia Emanuele Sacchetti datore luci Paco Summonte

mastering Luigi Di Martino
fonica Mattia Santangelo
progetto grafico Salvatore Fiore documentazione video Francesco Mucci

direttore di produzione Hilenia De Falco

un progetto a cura di Interno 5 e Teatri Associati di Napoli
con il sostegno della Fondazione De Filippo per i 90 anni di Natale in casa Cupiello

Natale in casa Cupiello, prodotto da Teatri Associati di Napoli è fedele al testo di Eduardo, nasce come un’installazione teatrale “viva” per un attore cum figuris. L’ambientazione è quella di un grande presepe in cui si muovono l’attore e le figure animate, che lui stesso manovra. Qui Tommasino viene raffigurato come simbolo di un cambiamento, pensando che il suo fatidico “sì” alla famosa domanda paterna sul presepe, non sia solo un modo di accontentare il padre morente ma l’inizio di un nuovo percorso.

Il progetto nasce da un’idea di Luca Saccoia e Vincenzo Ambrosino che ha preso corpo dall’incontro con il sottoscritto e lo scenografo Tiziano Fario.
Il presepe è l’orizzonte dentro cui si muove tutta l’opera sia in senso reale che metaforico, il presepe è l’elemento necessario a Luca Cupiello per sperare in una umanità rinnovata e senza conflitti, ma è anche la rappresentazione della nascita e della morte, è il tempo del passaggio dal vecchio al nuovo, è la miscela tra passato e presente, è una iconografia consolidata e al tempo stesso da destrutturare di continuo, il Presepe si rifà ogni anno, è ciclico come le stagioni, può piacere e non piacere.

È proprio da questa ultima affermazione che siamo partiti, cosa è diventato quel Tommasino, “Nennillo”, così come lo appella la madre, considerandolo un eterno bambino? Come si è trasformato dopo quel fatidico “si” sul letto di morte del padre? A queste risposte abbiamo provato a dare corpo immaginando che Tommasino abbia pronunciato quel “si” convinto, che da allora in poi, dovesse esserci un cambiamento, pensando che non fosse solo un modo di accontentare il padre morente, ma che fosse l’inizio di un percorso nuovo, di una nascita, così come il Presepe racconta. Ecco allora Tommasino farsi interprete a suo modo di una tradizione, eccolo testimone di un rito e di una rievocazione di fatti e accadimenti familiari comici e tragici che hanno segnato la sua vita e quella di quanti alla rappresentazione prendono parte.

Per farlo, per rendere ripetibile il rito, Tommasino si serve di pupazzi, di figure che si rianimano dentro i suoi sogni/incubi, che continuano a riaffacciarsi ogni anno come il Presepe e i suoi pastori. Si lascia sorprendere ancora una volta dalle storie che questi raccontano, vi prende parte, gli fornisce le battute, riaccarezza il sogno di Luca Cupiello di smussare i conflitti attraverso il rituale del Presepe.

Lello Serao

La macchia

LA MACCHIA

di Fabio Pisano
con Michelangelo Dalisi, Emanuele Valenti, Francesca Borriero
una produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Un ragazzo, un giovane, forse straniero, bussa al primo piano della palazzina di periferia in cui vive, per parlare con i proprietari di casa. Il fatto è che il loro bagno – presente sulla stessa verticale del suo, a pian terreno – perde; da qualche parte, perde acqua; e questo ha provocato la formazione di una macchia di umido proprio sul suo soffitto. E’ lì per farlo presente, per trovare una soluzione.

La coppia che abita quella casa, si compone di un marito e di una moglie. Una donna, forse una madre e lui, impegnato alla frontiera; un uomo integerrimo, tutto d’un pezzo, che non s’è mai piegato a tentativi di corruzione, che non ha mai abusato del suo ruolo; lui vietava senza l’uso di forza, chiaramente, l’ingresso clandestino degli stranieri dalla frontiera; non come i suoi colleghi, no di certo.

Quando arriva il giovane, lui è nella sua stanza, sulla sua poltrona, a guardare la tappa in salita di ciclismo, una grande passione, che ha provato a trasmettere anche a un figlio che forse, non ha mai avuto.

Ad accogliere il giovane c’è la donna, la moglie, che è alla disperata ricerca della rucola per la cena, o per ricomporre i pezzi di un ricordo, d’un tradimento di suo marito con l’insegnante di nuoto del figlio; lei è convinta che l’ospite sia in realtà il ragazzo che lavora per il servizio di nettezza urbana a domicilio.

Il dialogo tra i tre è un dialogo violento, in totale (dis)ascolto, in cui i due proprietari non ne vogliono sapere di andare a controllare i tubi del loro bagno anzi, sembrano finanche infastiditi.

Man mano che il giovane prova a parlare con loro due, il dialogo diventa sempre più aspro, si scende giù per cunicoli sempre più stretti, fin quando l’uomo, in divisa per il lavoro, tratta il giovane come fossero alla frontiera e lui, in preda al panico, prova persino a pagarlo per poter entrare nel loro bagno, per poter evitare un danno.

Brigata Miracoli

BRIGATA MIRACOLI

uno spettacolo di Vuccirìa Teatro

drammaturgia e regia Joele Anastasi

con
 Joele Anastasi, Federica Carruba Toscano, Adelaide Di Bitonto, Enrico Sortino, Beatrice Vento


scene Giulio Villaggio
light-designer Joele Anastasi, Martin Emanuel Palma
costumi Joele Anastasi
sound-designer Alessio Foglia
maschere dell’artista Sergio Fiorentino

aiuto regia e video Giuseppe Cardaci
realizzazione scene Alovisi Attrezzeria
responsabile tecnico Martin Manuel Palma
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Strade. Quartieri. Palazzi. Giorni nostri. La Luna, imponente emittente televisiva, illumina da 20 anni il quartiere, utilizzando e diffondendo giorno e notte nell’etere le piccole vite degli abitanti per il suo ricco palinsesto. Una notte improvvisamente si spegne e questo evento coincide con l’apparente sparizione di Afrodite, il volto della Luna. Nel quartiere però, nessuno al di fuori della sua famiglia conosce questa segreta connessione. Il padre vede in questa coincidenza, un’occasione di facile popolarità: come un santone che anticipa il futuro, lui può “predire” quando la nuova Luna si riattiverà. Così Il riflesso di Afrodite continua a muovere le cinque vite della sua “brigata”.

La genesi di Brigata Miracoli parte prendendo in analisi la figura di Afrodite che – nel suo incontro con l’umano Anchise – diede alla luce Enea, dando inizio così alla stirpe degli eroi. “Gli eroi non sono immortali, ma sono molto più forti, molto più belli, più potenti – ma spesso più ambigui, pericolosi e crudeli – degli umani.”

Nel nostro Brigata Miracoli ad Enea è stato assegnato il sesso femminile, innescando un corto circuito all’interno della tribù-Olimpo dal quale proviene. Al femminile è quindi riconsegnata tutta la potenza eroica e divina; ma ci siamo subito chiesti quali potessero essere invece le divinità del nostro tempo: quale montagna scaliamo ogni giorno per raggiungere l’altare dal quale pregare?

Le nostre divinità oggi sono tutte espressioni del consumismo e della capitalizzazione delle emozioni, così ogni personaggio di Brigata Miracoli si ispira ad una divinità classica, ormai corrosa e totalmente umanizzata. Il punto di svolta durante il lavoro è però arrivato imbattendoci negli studi di una neuropsichiatra, Suzanne O Sullivan che in “The Sleeping Beauties” raccoglie le testimonianze e delinea i contorni di una sindrome tutta moderna: la sindrome della rassegnazione. La neuropsichiatra si è infatti recata in Svezia studiando un fenomeno tutto nuovo e senza precedenti scientifici. Si sono registrati tantissimi casi di giovanissime donne, figlie di immigrati richiedenti asilo, che hanno iniziato ad addormentarsi – per settimane, mesi e in alcuni casi anni – senza mai risvegliarsi. La comunità scientifica non è riuscita però ad identificare le cause cliniche specifiche, inserendo questa sindrome dentro il largo e indefinito insieme delle malattie psicosomatiche: trattandosi di qualcosa che appare simile ad un coma ma che nella sostanza è quasi un addormentamento prolungato, i soggetti colpiti restano intrappolati in un lungo sonno non manifestando complicazioni particolari e, non essendoci cure possibili, rimangono affidati alle famiglie che li ‘custodiscono’ in attesa di un risveglio. Ma il vero punto cruciale negli studi della neuropsichiatra si manifesta nelle conclusioni a cui arriva: La Sindrome della rassegnazione si manifesta dove c’è un’insufficienza istituzionale, un senso di irreversibilità; un vuoto ed una frammentazione incolmabile. Non si può semplicemente parlare di malattie legate all’individuo ma manifestazioni di una malattia della società. Da questa prospettiva gli individui sono costretti a “schermarsi” addormentandosi, per potersi salvare. L’unica forma di guarigione dalla Sindrome della Rassegnazione è quindi riconducibile al ripristino della speranza.

Brigata Miracoli è l’Olimpo che ha smarrito le sue divinità. Un vero avamposto di resistenza e contraddizioni: un quartiere popolare che fa del suo essere tribù la sua salvazione. Ma il fuoco attorno al quale si raccoglie questa tribù è lo specchio della Luna, un canale televisivo. Afrodite è persa; la Luna subisce uno spegnimento: così d’improvviso l’intera comunità si percepisce come espulsa dal paradiso e l’unico obiettivo sarà quello di ritornarci. Enea nella nostra storia è Femmina ed è la chiave: indotta a dover seguire le orme della madre per ripristinare una “Nuova Luna”, avvierà una sua personale rivoluzione eroica, superando il meccanismo (della modernità) che la incastra ed usandolo a vantaggio. Su vari piani, la nostra è una riflessione sui medium più che sui contenuti e sulla loro sovrabbondanza. I medium come forma identitaria. Da sempre il Teatro è uno dei più potenti e trascurati. Brigata Miracoli è quindi anche un cortocircuito tra analogico e digitale; tra un’umanità che non si fa corrompere ed una già interamente digitalizzata.

Joele Anastasi

Dopodiché stasera mi butto

DOPODICHÉ STASERA MI BUTTO

uno spettacolo di Generazione Disagio

di e con Enrico Pittaluga, Graziano Sirressi, Andrea Panigatti, Luca Mammoli
regista e co-autore Riccardo Pippa

consulenza scene e costumi Margherita Baldoni
luci Max Klein
disegni Duccio Mantellassi

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Lo spettacolo di Generazione Disagio, Dopodiché stasera mi butto, primo lavoro teatrale del collettivo, è un cinico e spassoso gioco dell’oca che mira all’annullamento. Le tematiche di disagio generazionale, crisi e voglia di cambiamento vengono trattate con un gioco di ribaltamento paradossale, invece di risolvere i problemi o lottare per un mondo migliore il pubblico viene invitato a scaricare tutti i suoi problemi su un attore che è un giocatore-pedina e che si contenderà con gli altri la possibilità di arrivare per primo alla casella finale: quella del suicidio. Varie prove e imprevisti faranno avanzare o indietreggiare i personaggi su un tabellone, anche grazie all’aiuto del pubblico dal vivo. Quattro personaggi conducono il pubblico a giocare una folle partita a uno strano e innovativo gioco dell’oca, che ha come obiettivo la casella finale del suicidio. Un conduttore coinvolge gli spettatori per fare avanzare tre pedine umane sul tabellone: un dottorando, un precario e uno stagista attraverseranno imprevisti, prove collettive e prove individuali con un ritmo comico serrato e pezzi di improvvisazione basati su input che vengono dal pubblico. Vincerà chi riesce ad accumulare più sfighe e perciò più “disagio”. Nell’arco dei 70 minuti di spettacolo si affrontano temi quali l’amore, la paura del futuro, il lavoro, la sessualità, la politica, la solitudine e l’indeterminatezza. Uno spettacolo di cinica auto-analisi collettiva che non fa sconti a nessuno: irriverente, comico e profondo, che ci costringe a fare i conti con il mondo che abbiamo costruito e la vita che vorremmo. Il linguaggio alterna in un ritmo serrato citazioni colte, riferimenti pop e provocazioni trash.
“Sappiamo chi sei. 
Tu sei un disagiato. Lo sai tu e lo sappiamo anche noi. Sappiamo quante energie sprechi per non farlo vedere. Fratello disagiato, basta: Il disagio non è un ostacolo sulla strada, il disagio è la strada. 
Non cercare di cambiare te stesso. Non cercare di apparire migliore. Accettati come sei: pigro, inetto, inconcludente, dispersivo, vile. Noi ti vogliamo bene così.
 Non preoccuparti: elimineremo assieme ogni senso di colpa, ogni residuo di frustrazione.
 Noi siamo qui per aiutarti.
Siamo portatori di un messaggio universale che si esprime attraverso la pratica delle tre d:
Distrazione, Disinteresse, Disaffezione.
 Stringi la mano che ti porgiamo. Il futuro è nostro. Grandi giorni di festa si avvicinano.
 Noi siamo la Generazione Disagio. E ce ne sbattiamo il cazzo.”

Scheda di produzione
Rassegna stampa
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Trailer

“[…] la capacità degli attori di Generazione disagio è proprio quella di lanciare forti provocazioni mantenendo sempre un tono scanzonato, di inquietare agendo nel sotterraneo di una superficie di frizzi e lazzi, di far ridere lanciando dei macigni. Di rappresentare, fotografare in questo modo una desolazione generazionale con gli strumenti e i mezzi espressivi propri di questa stessa generazione.”

Giampiero Raganelli – teatroteatro.it

La insolita lezione del Professore O.T.

LA INSOLITA LEZIONE DEL PROFESSORE O.T.

da un’idea di Bruno Tràmice

di Massimo Maraviglia
con Bruno Tràmice
regia Massimo Maraviglia

scene Armando Alovisi
costumi Alessandra Gaudioso
musiche Canio Fidanza
disegno luci e regista assistente Ettore Nigro

ufficio stampa Anna Marchitelli
grafica Marco Di Lorenzo

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

In una immaginaria classe distratta e caciarona appare silenzioso e sornione un professore. Con fare morbido, toglie il soprabito sdrucito, poggia la sua valigia sulla scrivania e da essa comincia a trarre fuori l’insolito strumentario per la sua lezione… la classe tace… constatato che nessuno degli alunni immaginari è disposto a conferire sull’argomento del giorno, O.T. (Orfeo Travasci, questo è il nome del prof., che solo alla fine dichiarerà), dopo avere informato di dovere sostituire un collega e di essere un docente di Storia e Filosofia, prende la parola e sciorinando una particolareggiata, quasi musicale digressione sulle vicende di Federico II, argomento del giorno, scivola poi precipitosamente verso un’altra storia, questa volta di uomini comuni, coinvolti in un tragico fatto di cronanca, ambientato nella Napoli del 1980, anno che nella memoria collettiva della città resta per sempre legato al terribile sisma del 23 novembre. Tutto inizia con un laccio di scarpe che si spezza prima d’un normalissimo giorno di scuola, per Costantino, che a causa di quell’evento apparentemente del tutto insignificante, si ritrova trafitto da una pallottola vagante durante un attentato camorristico col quale, il povero ragazzo, nulla ha a che vedere. Il racconto di Travasci diventa allora la minuziosa e delicata descrizione dell’attraversamento di un dolore che vede coinvolti tutti i membri della famiglia di Costantino: Rosario il padre, Bianca la madre e, soprattutto, Ferdinando, suo fratello gemello. Ecco allora che l’aula apre i suoi confini visivi ed attraverso la lavagna rivela una finestra sugli interni in cui quel dolore si è consumato. Travasci alterna allora il suo racconto in terza persona a quelli in prima, dando corpi, voci e volti, senza soluzione di continuità, ai protagonisti di questa storia di vite comuni sconquassate dall’assurdità del caso. Ma il racconto volge poi verso una nuova possibilità, quasi a voler rispondere all’implicita domanda che è sottesa all’intera narrazione: cosa c’è oltre il caso? Cosa si trova oltre il dolore? E allora la storia di Travasci diviene quella del giovane gemello Ferdinando che, sollecitato da altri casi fortuiti (l’incontro con uno strano signore che gli parla di “porte di confine”) decide di scendere negli Inferi, non quelli lontani e mitologici, più semplicemente quelli nascosti dentro ognuno, dietro una porta o una botola qualsiasi. È un atto di coraggio privo di ogni speranza quello di Ferdinando, una resa dei conti con l’assenza e col vuoto lasciato dal fratello che non c’è più, un tentativo di colmare questo vuoto con una forza che non può avere nome ma che quando ti attraversa, trasforma le cose. Una forza che solo per convenzione si può chiamare amore. Ed è in virtù di questa forza che Ferdinando reincontra Costantino – forse solo nella sua immaginazione, o forse in un luogo dove lo spazio e il tempo non hanno più il fluire di sempre, e allora i due divengono uno, divengono mille e centomila… divengono tutti quelli che il caso ha lasciato morire senza una ragione ed in virtù di una violenza ottusa, e si trasformano nella forza distruttrice e rigeneratrice di un sisma… quello del 23 novembre. È una storia senza lieto fine, ma solo perché nessuna storia – come lo stesso Travasci dice – ha mai una fine, e forse nemmeno un fine… ogni storia è somma provvisoria di altre infinite storie, una complessa trama di rimandi, indizi, apparenti o sostanziali coincidenze… di lacci che si spezzano ma qualche volta si sciolgono soltanto e a noi non resta – come Travasci dice congedandosi – che riallacciarli. Impeccabilmente.

O.T. è forse il professore che, almeno una volta nella vita si sarebbe voluto incontrare. Giunge inaspettatamente in una classe attraversando uno squarcio nella linea abituale del tempo e, senza presentazioni, dice di voler sostituire qualcuno.
Così inizia la sua estemporanea lezione di storia, che associazioni di pensiero, derive e digressioni conducono un po’ in un’altra storia, questa volta di uomini comuni accidentalmente coinvolti in un tragico fatto di cronaca.
O.T. presta allora voce e corpo ai personaggi di un racconto in cui vicende personali e memoria collettiva di un’intera città si intersecano attraverso fili invisibili e formano uno spazio quantico tra il vero e l’immaginato. Uno spazio fatto di occasionali corrispondenze, di rimandi e indizi da decifrare, di dialoghi tra vivi e i morti, che alludono a un percorso di trasmutazione, dal piombo delle occasioni perdute all’oro di quelle ritrovate e coltivate.
Un delicato racconto sulla forza trasmutatrice degli affetti e delle emozioni, ma anche un omaggio in ricordo di coloro cui la brutalità del caso non ha dato modo di scegliere e di coltivare.

Massimo Maraviglia

Scheda di produzione
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Foto
Rassegna Stampa

È una forza speciale quella che irrompe ne “La insolita lezione del professore O.T.”, straordinario testo di Massimo Maraviglia.
…con Bruno Tràmice che riesce a passare da un ruolo all’altro senza alcun tipo di forzatura e con assoluta credibilità. E’ leggero quando bisogna essere lo strampalato professore, è profondo quando bisogna essere la madre annichilita che vuole vendetta oppure il padre che non riesce a compierla, consapevole com’è che nessun atto potrà restituirgli quanto gli è stato tolto, perché nessuna vendetta può portare giustizia.
Alessandra Staiano, Cultura e Spettacolo

Uno spettacolo di fantascienza

UNO SPETTACOLO DI FANTASCIENZA
Quante ne sanno i trichechi

testo e regia Liv Ferracchiati
con (in o.a.) Andrea Cosentino, Liv Ferracchiati e Petra Valentini

scene e costumi Lucia Menegazzo disegno luci Lucio Diana
suono Giacomo Agnifili

aiuto regia Anna Zanetti drammaturgia di scena Giulio Sonno lettore collaboratore Emilia Soldati

distribuzione Alessandro Gaggiotti
organizzazione Emanuele Belfiore
direttore di produzione Marta Morico
direzione tecnica allestimento Mauro Marasà
coordinamento area palcoscenico e allestimenti Roberto Bivona

realizzazione costumi in collaborazione con Sartoria Teatro delle Muse
datore luci Michele Stura
foto di scena Luca Del Pia

responsabile comunicazione e ufficio stampa Beatrice Giongo
promozione Benedetta Morico
comunicazione e grafica Lara Virgulti, Fabio Leone

una coproduzione MARCHE TEATRO, CSS – Teatro Stabile d’Innovazione del FVG, Teatro Metastasio di Prato, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Una rompighiaccio si sta dirigendo al Polo Sud mentre tutto intorno muta e si trasforma radicalmente. L’asse del mondo si è spostata e la Terra si è crepata, colpa dei trichechi che rotolando sulle rocce ne hanno modificato l’equilibrio. Il fatto è che a crollare non è il mondo ma i tasselli che compongono le nostre identità. Come si muoverà, allora, la percezione? Dove ci posizioneremo? Come cercheremo di decifrare quello che abbiamo davanti se regole e convenzioni conosciute saltano di continuo? Non vi è più nulla di definitivo, possiamo solo prendere consapevolezza e restare in ascolto di noi stessi in questo Spettacolo di Fantascienza.

Scheda di produzione
Foto
Rassegna stampa

“Ispirato all’ultimo progetto teatrale, mai portato a compimento da Cechov, una pièce ambientata su una nave diretta al Polo Nord, Liv Ferracchiati riprende l’idea di quel viaggio e la immagina collegata con il tentativo dei suoi tre personaggi di scongiurare una catastrofe climatica […] Con uno stile fluido, comico e spesso surreale, Ferracchiati porta i suoi personaggi-entità […] a mettere in discussione le tante gabbie in cui siamo costretti.”

Il Piccolo Giornale di Trieste

Gemito. L'arte d' 'o pazzo

GEMITO – L’ARTE D’ ‘O PAZZO

uno spettacolo di Compagnia Teatro Insania, Associazione NarteA

testo e regia Antimo Casertano
con Antimo Casertano, Daniela Ioia, Luigi Credendino, Ciro Kurush Giordano Zangaro

scene Flaviano Barbarisi
costumi Antonietta Rendina
assistente costumista Angela Froncillo

musiche originale Marco D’acunzo e Marina Lucia
disegno luci Paco Summonte
audio Mariano Penza
foto di scena Nina Borrelli

assistente regia Lella Lepre
ufficio stampa Gabriella Galbati e Milena Cozzolino

comunicazione Rosa Lo Monte
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Vincenzo Gemito è stato uno scultore partenopeo, nato a metà Ottocento e cresciuto da genitori adottivi, poiché abbandonato nella ruota degli esposti; all’età di 9 anni inizia il suo apprendistato nella bottega di Emanuele Caggiano, in seguito studierà ritrattistica, perfezionerà le sue doti di scultore e raggiungerà una certa fama. Afflitto, però, da problemi psichici, e ossessionato dalla continua ricerca della perfezione e dal maniacale tentativo di lavorare non per la conquista del successo ma per la conquista della verità, venne recluso in manicomio. Antimo Casertano indaga e narra la personalità di Gemito e la sua crisi esistenziale, chiedendosi cosa porta un artista alla rovina o alla sua gloria, cosa spinge un artista al blocco emotivo, psichico e professionale. «Bisognerebbe sfatare il mito del genio- folle. Molto spesso chi attraversa un momento insano non riesce a creare nulla di geniale. Parte da questa analisi la volontà di realizzare uno spettacolo e di poterlo portare in scena, non solo per la volontà di ridare luce alla complessa figura di Gemito, ma soprattutto per esplorare questo delicatissimo e profondo momento che riguarda noi “esseri umani” da vicino. Attraverso la sua vicenda cercheremo di esplorare la materia intima che muove un artista, sperando di porre le domande giuste. Sperando di poter aprire le giuste fessure nei meandri delle nostre anime. La risposta come al solito sarà affidata al pubblico.»

Scheda di produzione
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L'uva alla fine dell'hot dog

L’UVA ALLA DINE DELL’HOT DOG

di Francesco Ferrara
con Collettivo Mind the step
regia Gabriele Russo
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

La frase, quella del titolo, viene dall’Islanda. Per i curiosi si scrive He Það pylsuendanum rúsínan í, ma non chiedeteci come si legge. È usata per descrivere una piacevole sorpresa (del tipo: e chi se l’aspettava!) o il culmine di un’esperienza (ad esempio: sono stato al concerto di Liberato e alla fine, indovina, ha rivelato la sua identità!). È un po’ la nostra ciliegina sulla torta.

L’uva alla fine dell’hot dog non è uno spettacolo. Almeno non al momento. È un progetto. È un percorso di ricerca. Uno spazio di incontro tra artisti. Una possibilità di confronto tra artisti e pubblico. Ma è anche il tentativo di instaurare una relazione con la comunità che abiterà il Teatro Bellini.

Va bene, ma come funziona?
Scelto un tema d’indagine, sotto la guida di Gabriele Russo, i membri del collettivo Mind the step si ritroveranno in sala prove per cinque periodi di residenza creativa. A conclusione di ogni fase di ricerca, è prevista un’apertura negli spazi del teatro. Verranno mostrati i punti d’arrivo ma anche le criticità del percorso, in un dialogo aperto e sincero con il pubblico. In altre parole, chi vuole può dire la sua. Con attenzione alla multidisciplinarietà e alla contaminazione dei linguaggi, percorreremo una strada lunga un’intera stagione, da settembre fino a maggio, quando la performance debutterà ufficialmente in stagione. Lo faremo insieme, che è sempre una bella parola.

E alla fine dell’hot dog chissà se troveremo l’uva.

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    Ciao sono Bellina.
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