La Grande Magia

di Eduardo De Filippo 

regia Gabriele Russo

con
Natalino Balasso nel ruolo di Calogero Di Spelta 
Michele Di Mauro nel ruolo di Otto Marvuglia 

e con in o/a
Veronica D’Elia – Amelia Recchia
Gennaro Di Biase – Mariano D’Alovisi e Brigadiere di P.S.
Christian di Domenico – Arturo Recchia e Gregorio Di Spelta
Maria Laila Fernandez – Signora Marino e Rosa Di Spelta 
Alessio Piazza – Gervasio e Oreste Intrugli (genero Di Spelta)
Sabrina Scuccimarra – Zaira (moglie di Marvuglia) 
Manuel Severino –
Cameriere dell’albergo Metropole e Gennaro Fucecchia 
Alice Spisa – Marta Di Spelta e Roberto Magliano
Anna Rita Vitolo – Signora Zampa e Matilde (madre Di Spelta)

scene Roberto Crea
luci Pasquale Mari
costumi Giuseppe Avallone 
musiche e progetto sonoro Antonio Della Ragione

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, Teatro Biondo Palermo, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale

durata spettacolo: 120 minuti

Calogero Di Spelta, marito tradito, con la sua mania per il controllo e la sua incapacità di amare e fidarsi, diventa uno specchio delle sfide e delle difficoltà dell’uomo contemporaneo nell’ambito delle relazioni.
Un uomo mosso da un sentimento ossessivo, smarrito in un mondo che sembra altrettanto confuso, con la costante esigenza di aggrapparsi a certezze granitiche, a costo di rinchiuderle simbolicamente in una scatola. Un luogo chiuso interpretato da Di Spelta come luogo sicuro, una seconda prigione come soluzione per la sua relazione, per sconfiggere le proprie paure, le proprie incertezze e le ossessioni che permeano la nostra società moderna. 
Dall’altro lato, Otto Marvuglia, mago e manipolatore, personaggio meno “dolce” in scrittura di quanto non lo sia in scena quando ammorbidito dall’interpretazione dallo stesso Eduardo. Il Marvuglia/illusione, il Marvuglia/realtà, il Marvuglia/impostore sono le facce sempre diverse ed interscambiabili che modificano il contesto e la percezione della realtà di Girolamo Di Spelta, ne consegue un continuo cortocircuito che confonde il piano dell’illusione con quello della realtà, destabilizzando i personaggi stessi e gli spettatori. Smarriti i personaggi, smarriti gli spettatori, smarriti gli uomini e le donne di oggi, smarriti nelle relazioni, smarriti nel continuo fondersi del vero e del falso. Cosa è vero? Cosa è falso?

Perché Eduardo
A ventidue anni ho sperimentato la potenza della scrittura di Eduardo De Filippo nella fortunatissima edizione di Napoli Milionaria diretta da Francesco Rosi in cui ero Amedeo, il figlio di Gennaro Iovine interpretato da Luca De Filippo. Quelle oltre trecento repliche mi hanno fatto toccare con mano la profondità e la sapienza di questa drammaturgia, il senso, i sentimenti, la verità e la teatralità insieme che ci sono dietro ogni singolo frammento di testo, la ricchezza che si rivela in ogni battuta. Ho potuto toccare con mano la grandezza di un autore che definirei un alchimista della drammaturgia scenica e un mago, appunto, capace di regalare agli attori parole, contesti ed azioni in cui crescere, imparare, sviluppare intelligenza teatrale, replica dopo replica. È per questo ed altro che vent’anni dopo ho sentito che avrei dovuto e voluto mettere in scena un suo testo. Ma quale?  

La grande magia
Se posso dire di essere arrivato razionalmente all’idea ed al desiderio di lavorare ad un’opera di Eduardo non posso dire altrettanto riguardo la scelta del testo da mettere in scena che viceversa è stata dettata dall’istinto, ritenendo che da esso possano venire fuori traiettorie artistiche significative e profonde. Quando ho chiesto a Tommaso De Filippo i diritti de La grande magia, nel mezzo dei bei confronti e scambi che hanno nutrito questo percorso, mi ha chiesto “provocatoriamente” se di fronte ad una eventuale indisponibilità di quel testo ne avessi voluto indicare un altro e a costo di rischiare di perdere l’occasione di lavorare ad un testo di Eduardo, seguendo l’istinto che mi aveva guidato in quella richiesta ho risposto che no, non avevo altre opzioni. Non in quel momento, non in questo momento. Fra tutti i testi di Eduardo che posso dire di conoscere a fondo ritengo e sento che La Grande Magia sia quello più necessario oggi per i temi che affronta, per le relazioni che propone, perché è una commedia squilibrata, meno lineare e matematica delle altre, sospesa e caotica come il tempo in cui viviamo, infine, perché come regista sento di poter dare un contributo specifico e personale. La Grande Magia è un testo complesso, ha l’ampiezza e lo sguardo del gran teatro ed allo stesso tempo offre sfumature nere della nostra umanità, tratti psicologici addirittura espansi nella nostra società contemporanea rispetto al 1948, anno in cui La Grande Magia andò in scena per la prima volta suscitando reazioni controverse e per lo più negative, poiché il testo non fu capito ed apprezzato. Come sappiamo, per Eduardo quella fu una profonda delusione, fu accusato di imitare Pirandello o più semplicemente, ci fu quella resistenza che sempre riscontra un grande artista quando prova ad esplorare nuovi orizzonti. Il fatto che Eduardo stesso abbia vissuto l’amarezza dell’incomprensione del pubblico rivela quanto questo testo sia intriso di profondità e potenzialità per raccontare oggi le nostre emozioni, le nostre incertezze e le nostre ossessioni. Questa commedia nera, a tratti drammatica, così ambigua e scivolosa, non ristretta al discorso sulla famiglia, priva di retorica, sospesa fra realtà e finzione, fra fede e disillusione, teatro e vita, vero e falso. 

Cosa è vero? Cosa è falso?
Eppure, ciò che rende questa commedia ancor più vicina al nostro tempo è il sentimento ossessivo di Calogero Di Spelta, un uomo smarrito in un mondo che sembra altrettanto confuso. Un uomo che ha bisogno di aggrapparsi a certezze granitiche a costo di rinchiuderle simbolicamente in una scatola. E nella scatola è disposto a credere ci sia sua moglie pur di non dubitare, pur di non vedere, pur di averla sotto controllo. Un luogo chiuso interpretato da Di Spelta come luogo sicuro, una seconda prigione come soluzione per la sua relazione, per sconfiggere le proprie paure, le proprie incertezze e le ossessioni che permeano la nostra società moderna. Calogero Di Spelta, marito tradito, con la sua mania per il controllo e la sua incapacità di amare e fidarsi, diventa uno specchio delle sfide e delle difficoltà dell’uomo contemporaneo nell’ambito delle relazioni.
Dall’altro lato, Otto Marvuglia, mago e manipolatore, personaggio meno “dolce” in scrittura di quanto non lo sia in scena quando ammorbidito dall’interpretazione dallo stesso Eduardo. Il Marvuglia/illusione, il Marvuglia/realtà, il Marvuglia/impostore sono le facce sempre diverse ed interscambiabili che modificano il contesto e la percezione della realtà di Girolamo Di Spelta, ne consegue un continuo cortocircuito che confonde il piano dell’illusione con quello della realtà, destabilizzando i personaggi stessi e gli spettatori. Smarriti i personaggi, smarriti gli spettatori, smarriti gli uomini e le donne di oggi, smarriti nelle relazioni, smarriti nel continuo fondersi del vero e del falso. Cosa è vero? Cosa è falso? 

Il cast
Ho sentito fin da subito di non dover necessariamente scegliere gli attori dentro i confini dialettali poiché questo testo confini non ne ha e la lingua napoletana in questo caso non è corpo così radicato come in altri testi eduardiani. Nella scelta mi ha guidato il desiderio di interrogare il testo da una prospettiva che mi consentisse di ascoltarlo come fosse la prima volta e se è vero che Eduardo fa grandi gli attori, è altrettanto vero che per recitare le parole di Eduardo ci vogliono grandi attori, a prescindere dalla provenienza geografica. Ed è a partire da queste considerazioni che sono arrivato a pensare a Natalino Balasso per Calogero Di Spelta e Michele Di Mauro per Otto Marvuglia, due interpreti straordinari che hanno immediatamente accolto con partecipazione e desiderio il prodigioso confronto che ci attende. Di pari passo, le stesse direttrici, guideranno la composizione dell’intera compagnia. 

La tradizione come trampolino
In questo ci interroga ancora oggi questo testo, che è certamente un classico e come tale da affrontare con attenzione e cura senza farsi ingabbiare dalle trappole della memoria visiva ed uditiva che il teatro di Eduardo porta con sé, non cancellare la tradizione ma usarla come trampolino, per non usare Eduardo come vampiri ma per provare a spingere l’analisi sul suo lavoro, se possibile un passo più avanti, ad esplorare nuove possibilità all’interno delle trame e dei temi presenti nell’opera e che inevitabilmente ci parlano diversamente settantacinque anni dopo la prima messinscena. D’altra parte fu proprio Eduardo, rivolgendosi ai più giovani, ad utilizzare la metafora della tradizione come trampolino e questa metafora sarà oggetto concreto della scena, il trampolino sarà non solo un elemento fisico, ma anche un simbolo potente. Rappresenterà il luogo delle visioni e delle sparizioni, uno spazio sospeso in cui il reale e il fantastico si intrecciano, le paure si realizzano o svaniscono nel nulla. Sarà il punto di partenza per esplorare nuove prospettive all’interno della storia e dei personaggi, permettendo così al pubblico di immergersi nell’oggi de La Grande Magia che fu. 

Relazioni – personaggi – autori di riferimento
In quest’opera, tutti i personaggi potrebbero manifestarsi come visioni di un incubo, riflesso dell’angoscia e dell’ossessione di Di Spelta, manipolato abilmente dal mago Otto Marvuglia. Gli altri personaggi, pur essendo inizialmente presentati come burattini nelle mani di Marvuglia, diventano a loro volta burattinai, amplificando la complessità e la fluidità delle scene. Questa dinamica trasforma costantemente il quadro della narrazione, spostando la messa a fuoco e offrendo punti di vista mutevoli e contrastanti, sottolineando la natura sfuggente e misteriosa della commedia. La messa in scena potrebbe essere concepita come un ping pong continuo fra i personaggi, con il punto di vista che si ribalta e cambia costantemente. Una dinamica che intensifica la tensione e l’ambiguità dell’intreccio ed è una direttrice sotterranea al testo che mi piace evidenziare.  
Infine, e se è vero che ci sono notevoli similitudini e riferimenti fra La Grande Magia e le opere di Pirandello, in particolare l’Enrico IV ma anche, particolarmente nel terzo atto, a Sei personaggi in cerca d’autore è anche vero che La Grande Magia mi fa pensare al La Tempesta di Shakespeare per l’omaggio che è al teatro, alla finzione e all’illusione, perché ha un carattere testamentario ed esoterico. Perché è magico. Perché è gran teatro. Perché il teatro è una Grande Magia.

Gabriele Russo

dal 15 ottobre al 2 novembre 2024 Napoli – Teatro Bellini di Napoli
dal 5 al 10 novembre 2024 Milano – Piccolo Teatro di Milano 
dal 14 al 17 novembre 2024 Modena – Teatro Storchi 
dal 19 al 24 novembre 2024 Verona – Teatro Nuovo 
26 novembre 2024 Portogruaro (VE) – Teatro Russolo 
28 novembre 2024 Cattolica (RN) – Teatro della Regina 
dal 29 novembre all’1 dicembre 2024 Faenza (RA) – Teatro Masini 
dal 6 al 15 dicembre 2024 Palermo – Teatro Biondo
dal 17 al 22 dicembre 2024 Torino – Teatro Carignano 
dal 9 al 12 gennaio 2025 Trento – Teatro Sociale
dal 14 al 15 gennaio 2025 Vicenza – Teatro Comunale
16 gennaio 2025 Gorizia – Teatro Comunale Verdi
dal 18 al 19 gennaio 2025 Parma – Teatro Due
21 gennaio 2025 San Marino – Teatro Nuovo
dal 23 al 26 gennaio 2025 Bari – Teatro Piccinni
dal 28 al 30 gennaio 2025 Udine – Teatro Nuovo
31 gennaio 2025 Azzano Decimo (PN) – Teatro Mascherini
dal 4 al 5 febbraio 2025 Lugano – LAC
dal 6 al 7 febbraio 2025 Locarno (TI) – Teatro di Locarno 
dal 8 al 9 febbraio 2025 Carpi (MO) – Teatro Comunale
dal 11 al 12 febbraio 2025 Carrara (MS) – Teatro degli Animosi 
dal 13 al 16 febbraio 2025 Cesena – Teatro Bonci 
dal 19 al 20 febbraio 2025 La Spezia – Teatro Civico
dal 21 al 23 febbraio 2025 Genova – Teatro Ivo Chiesa

Il caso Jekyll

Tratto da Robert Louis Stevenson

adattamento Carla Cavalluzzi e Sergio Rubini
regia Sergio Rubini

con 
Sergio Rubini nel ruolo di  – Il Narratore / Hastie Lanyon
Daniele Russo nel ruolo di – Henry Jekyll / Edward Hyde

e con 
Geno Diana – John Gabriel Utterson 
Roberto Salemi – Richard Enfield / Poole / Ballerino
Angelo Zampieri – Danvers Carew / Ispettore Newcomen / Guest / Domestico
Alessia Santalucia – Lenore / Cameriera / Pensionante di Soho / Domestica / Fiammiferaia / Madre di Lizzie

scene Gregorio Botta
scenografa assistente Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia

Produzione Fondazione Teatro Di Napoli – Teatro Bellini, MARCHE TEATRO, Teatro Stabile di Bolzano

durata 120 minuti senza intervallo

Il nostro Henry Jekyll è uno stimato e blasonato studioso della mente vissuto tra la fine  dell’Ottocento e i primi del Novecento, proprio nello stesso periodo in cui nasce e si sviluppa  la psicanalisi. 
Dopo un’affannosa e solitaria ricerca sui disturbi psichici dei propri pazienti, il grande  luminare è approdato all’individuazione delle cause della malattia mentale: all’origine di quei  disturbi vi è il conflitto tra l’Io e la sua parte oscura, la sua Ombra, quella battezzata in quegli  anni con il nome di Inconscio.  
Secondo gli approdi scientifici del dottor Jekyll, l’Io anziché reprimere questa parte, che se  troppo compressa improvvisamente potrebbe emergere in tutta la sua violenza fino a sfociare  talvolta nella follia, deve imparare a riconoscerla e a stabilire con essa un rapporto, un  dialogo costruttivo. L’Ombra, infatti, non è costituita solo da istinti e desideri inconfessabili,  ma è anche e soprattutto fonte di creatività e di piacere, oltre a rappresentarci per ciò che  siamo veramente, nel profondo. Il dottor Jekyll decide così di sperimentare su se stesso le sue  teorie tirando fuori dalla caverna del conscio ciò che è a lui stesso nascosto, a cui dà il nome  di Edward Hyde. Ciò che il dottore non mette in conto è che una volta liberato quel suo  famigliare oscuro, questi, anziché soggiacere alle regole del dialogo impostate dalla sua  parte razionale, inizia progressivamente a vivere di vita propria dando libero sfogo alle sue  inclinazioni più malvagie e violente fino a prendere il sopravvento sull’intera vita dell’esimio  scienziato. A cadere vittima di Edward Hyde, oltre a tutte le figure chiave della vita del  medico, ignare di chi si nasconda dietro quell’essere spregiudicato, sarà Jekyll stesso, che al  culmine degli orrori collezionati dal suo doppio malvagio, sarà messo di fronte all’amara  scelta se continuare a tenere in vita Edward Hyde o “disinnescarlo” anche a costo di ucciderlo.

Partendo dalla considerazione che il celebre romanzo di Stevenson “Lo strano caso del Dr. Jekyll e di Mr. Hyde” è un’apologia sulla condizione umana, avendo come tema centrale il doppio che poi è il doppio che alberga in ognuno di noi, abbiamo sviluppato una drammaturgia in chiave più chiaramente psicanalitica, più vicina a quelle teorie che si svilupparono quasi mezzo secolo dopo la pubblicazione del racconto stevensoniano e che ebbero il massimo dell’espressione negli approdi scientifici prima di Freud, poi di Jung. 
Il nostro testo, infatti, spogliato da qualsiasi soluzione allegorica usata da Stevenson – che dà il carattere fantastico a tutta la storia, come la metamorfosi di Jekyll in Hyde attraverso un esperimento chimico, la cosiddetta “pozione” -, è piuttosto un viaggio nell’inconscio, nella fattispecie di un famoso luminare della medicina, Henry Jekyll, che ambendo all’individuazione di quelle che sono le cause della malattia mentale, si fa cavia e diventa poi vittima delle sue stesse teorie, tirando fuori dalla caverna del conscio ciò che è a lui stesso nascosto, la sua ombra, il suo Hyde.
Da ciò si evince chiaramente come il racconto da cui siamo partiti sia in effetti solo d’ispirazione a una storia più vicina ai temi della nostra contemporaneità, offrendo allo spettatore la possibilità non solo di rispecchiarsi in quelli che sono i pericoli ma anche i piaceri che scaturiscono dalla propria ombra, ma anche di essere spunto di riflessione sulla necessità di dialogare col proprio inconscio, portarlo fuori e condividerlo con la collettività per evitare che la nostra ombra scavi in solitudine nel nostro io un tunnel di sofferenze e violenza.

Sergio Rubini

10 novembre 2024 Castiglione delle Stiviere – Teatro Sociale
dal 12 al 17 novembre 2024 Milano – Teatro Carcano
dal 21 al 24 novembre 2024 Ancona – Teatro delle Muse
26 e 27 novembre 2024 Piacenza – Teatro Municipale
28 novembre 2024 Sondrio – Teatro Sociale
dal 29 novembre all’1 dicembre 2024 Pavia – Teatro Fraschini
3 e 4 dicembre 2024 Bellinzona – Teatro Sociale
5 dicembre 2024 Scandiano (RE) – Teatro Boiardo
6 e 7 dicembre 2024 Lucca – Teatro del Giglio
11 dicembre 2024 Ragusa – Teatro Duemila
dal 12 al 15 dicembre 2024 Catania – Teatro ABC
17 e 18 dicembre 2024 Agrigento – Teatro Pirandello
dal 19 al 22 dicembre 2024 Catania – Teatro ABC
5 gennaio 2025 Avellino – Teatro Carlo Gesualdo
6 gennaio 2025 Sulmona – Teatro Maria Caniglia
dal 9 al 12 gennaio 2025 Bolzano – Teatro Comunale
14 gennaio 2025 Fidenza – Teatro Magnani
dal 16 al 19 gennaio 2025 Trento – Teatro Sociale
dal 21 gennaio al 2 febbraio 2025 Roma – Teatro Quirino
dal 5 al 9 febbraio 2025 Padova – Teatro Verdi
11 e 12 febbraio 2025 Cortona – Teatro Signorelli
13 febbraio 2025 Colle Val D’Elsa – Teatro del Popolo
15 e 16 febbraio 2025 Figline Val D’Arno – Teatro Comunale Garibaldi
19 febbraio 2025 Conegliano Veneto – Teatro Accademia
dal 20 al 23 febbraio 2025 Trieste – Teatro Politeama Rossetti
dal 25 al 27 febbraio 2025 Rimini – Teatro Galli
28 febbraio 2025 Mantova – Teatro Sociale
1 e 2 marzo 2025 Carpi – Teatro Comunale

Sanghenapule

Vita straordinaria di San Gennaro

SANGHENAPULE
Vita straordinaria di San Gennaro 

testo e drammaturgia Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
con Roberto Saviano e Mimmo Borrelli
musiche, esecuzione ed elettronica Gianluca Catuogno e Antonio Della Ragione
scene Luigi Ferrigno
costumi Enzo Pirozzi
luci Salvatore Palladino
sound design Alessio Foglia
regia Mimmo Borrelli
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini
in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa
durata spettacolo 90 minuti

In uno spettacolo che intreccia il racconto alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, esplorandone il mistero e la contraddizione. Attore e narratore percorrono alcune tappe della storia napoletana in una continua osmosi tra celeste e sotterraneo.  È il sangue il filo conduttore di uno spettacolo di parole, luci e suoni, con una splendida colonna sonora originale eseguita dal vivo. È il sangue che si scioglie, rinnovando ogni anno il patto tra il santo e la sua gente; è il sangue dei primi martiri cristiani, ma anche quello dei “martiri laici” della Repubblica partenopea, che a fine Settecento tentò di opporre l’ideale democratico all’oppressione borbonica; è l’emorragia dell’emigrazione nei primi decenni del Novecento, quando migliaia e migliaia di italiani varcarono l’oceano in cerca di un futuro migliore; è il sangue versato sotto le bombe della Seconda Guerra mondiale; è, infine, quello degli agguati di camorra. In uno spettacolo che intreccia la narrazione alla poesia, esaltando la lingua napoletana in tutta la sua barocca bellezza, Mimmo Borrelli e Roberto Saviano, puntano al cuore di Napoli, città di sangue e di lava incandescente, raccontandone il mistero e la contraddizione.

dal 24 al 27 settembre 2024 Napoli – Teatro Bellini di Napoli
dal 25 al 27 ottobre 2024 Roma – Teatro Ambra Jovinelli 
dal 7 al 9 novembre 2024 Firenze – Teatro Rifredi 
30 gennaio 2025 Taranto – Teatro Orfeo 
dall’1 al 3 febbraio 2025 Bari – Teatro Piccinni 

Scheda di produzione
Trailer
Locandina
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“Viaggio nel sangue di Napoli, metaforico e vero; quello che fa vivere e quello che scorre ogni giorno, che ribolle da secoli a fare festa e fede, che riempie le pagine scritte a dare emozione e dolore. 
[…] pozzo tetro d’antichi reperti assassini, anfiteatro di morte, presepio dirupato, cavea misteriosa e luogo di tormento miracoloso che si apre per diventare la tribuna in cui Roberto Saviano s’affaccia a parlare della storia di una città che scelse a santo protettore un martire decapitato. A dire poi di altri martiri che sognarono una società più giusta e furono uccisi tutti con determinata spietatezza regale, a ricordare il dolore di chi parte per andare lontano a cercare una vita migliore. Sangue e sangue che grida con forza pacata nella voce di un intellettuale sicuro che fa da contrappunto alla parola/canto dell’attore che recita le parti della città in angoscia e furore.”
Giulio Baffi, La Repubblica

“In una continua osmosi tra celeste e sotterraneo, attore e narratore percorrono alcune tappe della storia napoletana. La presenza narrativa di Saviano è una bussola necessaria, che guida lo spettatore all’interno della lingua, tanto meravigliosa quanto impenetrabile, di Mimmo Borrelli.”
Rossella Capuano, Eroica Fenice

“[…] il San Gennaro di Saviano e Borrelli è la metafora e il paradigma di una città ontologicamente sospesa – proprio come il sangue del suo Patrono – fra lo stato solido (una realtà dura, talvolta oppressiva e sempre capace di opporre un’immobilità paralizzante ai tentativi di spezzarne l’egemonia) e liquido (i sogni, le utopie, le pigrizie, i sentimenti, il culto di una tradizione spesso fraintesa).”
Enrico Fiore, Corriere del Mezzogiorno

Le Cinque Rose di Jennifer

di Annibale Ruccello

con Daniele Russo e Sergio Del Prete

scene Lucia Imperato
costumi Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
progetto sonoro Alessio Foglia

regia Gabriele Russo

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

durata 90 minuti

Jennifer è un travestito romantico che abita in un quartiere popolare della Napoli degli anni ‘80. Chiuso in casa per aspettare la telefonata di Franco, l’ingegnere di Genova di cui è innamorato, gli dedica continuamente Se perdo te di Patty Pravo alla radio che, intanto, trasmette frequenti aggiornamenti sul serial killer che in quelle ore uccide i travestiti del quartiere. Gabriele Russo affronta per la prima volta un testo di Ruccello – scegliendo il più simbolico, quello che nel 1980 impose il drammaturgo all’attenzione di pubblico e critica. Il regista ci preannuncia una messinscena dall’estetica potente, fedele al testo e, dunque, alle intenzioni dell’autore «ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà Ruccello stesso – racconta Russo – cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi». In scena, un inedito Daniele Russo, affiancato da Sergio Del Prete in un allestimento che restituirà tutta la malinconia del testo senza sacrificarne l’irresistibile umorismo.

Se ci si ferma a pensare, l’unica scelta sensata è quella di non azzardarsi a toccare un testo come Le cinque rose di Jennifer di Annibale Ruccello. È una pietra miliare del teatro, un testo che quanto più lo si legge e approfondisce tanto più ti penetra, ti entra nell’immaginario, si cristallizza nei pensieri e si deposita nell’inconscio. Anche solo dopo averlo letto (caso raro poiché sappiamo che “il teatro non si legge”) Jennifer smette di essere il personaggio di un testo teatrale per farsi carne e ossa, sangue e sentimenti. Una persona viva, sempre esistita. Qualcosa che ti appartiene, che è dentro di te, nei tuoi sentimenti, nella tua cultura, nei tuoi suoni, nel tuo immaginario. Qualcosa di ancestrale, di antico e moderno, che risuona tutti i giorni dentro di noi, su un palcoscenico, nei vicoli della città o nelle pagine di un libro. Jennifer è il diavolo e l’acqua santa. Eterna contraddizione. Paradigma dell’ambiguità napoletana.
Questa sensazione di appartenenza è quella che soltanto i personaggi dei grandi classici riescono a restituire, quelli che, come fantasmi, si aggirano quotidianamente nelle segrete di tutti i teatri, anche quando in scena si recitano testi contemporanei.
È un testo che è Napoli stessa e dunque punto di riferimento, mito e desiderio di tutta la Napoli teatrale che ne conosce le battute a memoria. È un testo che, come tutti i classici ma in modo forse ancor più radicale, vediamo anche attraverso quello che è già stato, nella voce e nei corpi di chi già lo ha interpretato, primo fra tutti Ruccello stesso. Questi elementi, però, sono anche quelli che ci spingono a rimetterlo in scena, ad accostarci al suo mito, al suo fantasma, con rispetto ma anche liberi da sovrastrutture, poiché apparteniamo alla generazione che non ha vissuto Ruccello negli anni in cui era in vita, non abbiamo vissuto il lutto della sua prematura scomparsa: pertanto, scriviamo su di noi attraverso di lui. Per farlo, ci atteniamo alle rigide regole e alle precise indicazioni che ci dà l’autore stesso, cercando di attraversare, analizzare, capire sera per sera, replica dopo replica un testo strutturalmente perfetto, che delinea un personaggio così pieno di vita che pare ribellarsi alla mano di una regia che vuole piegarlo alla propria personalissima visione. Non è un testo su cui sovrascrivere ma in cui scavare, per tirare fuori sottotesti, possibilità, suggestioni, dubbi. Ad esempio, Anna, il travestito che va a trovarla a casa, chi è? Una proiezione di Jennifer? Il suo inconscio? L’assassino del quartiere? Gli omicidi stanno accadendo realmente? Le telefonate sono vere o inventate? Quel che accade è vero o è tutto nell’immaginario di Jennifer? Ecco perché nella nostra messinscena Anna è presente sul palco tutto il tempo dello spettacolo, osserva Jennifer dall’esterno, si aggira come uno spettro intorno alla casa (l’isola) su cui Jennifer galleggia e vive la sua intimità. È il suo specchio. Queste domande, queste sospensioni sostengono l’atmosfera fra il thriller ed il noir tanto cara a Ruccello, che noi cercheremo di amplificare al fine di creare quella tensione che richiede un testo fatto di telefonate e attese. Un testo che “rimanda” a Pinter o a Beckett…Confesso di aver immaginato anche di metterlo in scena come Giorni Felici, con la sola testa di Jennifer che fuoriusciva da un telo che avrebbe rappresentato il Vesuvio. Ma poi… perché? I temi e i livelli di lettura non sono univoci, non possono essere ingabbiati ed intellettualizzati. Le cinque rose di Jennifer racconta di due travestiti napoletani ma racconta anche e soprattutto la solitudine, la solitudine che è il rovescio della medaglia della speranza che Jennifer mantiene dentro di sè fino alla fine e, dal mio punto di vista, oggi racconta con forza anche la condizione dell’emarginato, quella di chi si deve nascondere. Ecco perché in questa nostra messinscena Jennifer al suo ingresso in casa non vestirà panni che dichiarano la sua condizione femminile ma si nasconderà in abiti apparentemente maschili, trasformandosi solo nell’intimità casalinga, in cui è libera di essere o di provare a essere. La trasformazione è un tema centrale della nostra messinscena: il travestire più che il travestito, il che ci lega anche alla città ed ai mille modi in cui essa si “copre” e “agghinda”. Jennifer si traveste, come un attore, come Napoli. Jennifer si trasforma, come un attore, come Napoli. È fragile, come un attore, come Napoli. Prova, come un attore, non come Napoli, che non ci prova nemmeno.
L’estetica della messinscena, sarà nel segno del Kitsch, un aspetto che Ruccello tiene ad evidenziare fin dalle prime didascalie, che rimanda a uno stile e a un linguaggio specifici. Per spiegarmi meglio, prendo a prestito le parole di Kundera, secondo il quale «Nel regno del Kitsch impera la dittatura del cuore. […] Il Kitsch elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile.» è un mondo di sentimenti, dove vige la dittatura del cuore e, nel caso di Jennifer, la solitudine. Le restano solo gli oggetti e le fantasie a cui aggrapparsi per non sprofondare nel vuoto, nelle mancanze, nelle ansie, nelle angoscia. L’estetica del Kitsch è finzione, così Jennifer finge con gli altri e con se stessa fino alle estreme conseguenze, respinge dal proprio campo visivo ciò che è essenzialmente inaccettabile. In tal senso è una vera attrice, perché finge talmente bene da essere vera.

Gabriele Russo

Scheda di produzione
Rassegna stampa
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Trailer
Visual

Gabriele Russo, regista di “Le cinque rose di Jennifer” andato in scena al Teatro Bellini, affida la “nuova” Jennifer alla complessa invenzione di Daniele Russo che, nel suo rapido e disperato trasformarsi, nella sua insofferenza di maschio, nella sua disperata rincorsa verso una femminilità lussuosa, nel disegno doloroso della inevitabile sconfitta, nel disegno di una solitudine senza scampo, si conferma originale ed eccellente protagonista del nostro teatro. Molti attori hanno cercato il senso ed il suono di Jennifer. Daniele Russo se ne è impadronito ora, con un dolore ed una passione coinvolgente, restituendocene l’illusione malata, dilatandola fino a mettere in scena la solitudine di una generazione incerta, cui sfuggono confini, geografie, storia ed amore. […]
[…] Testo “cult” del teatro italiano, scrittura d’impatto sicuro, gioco perfido di illusioni e sconfitte, thriller senza sbocco e senz’altra storia che quella di una illusione, di un’attesa disperata, di una violenza interiore, di un assedio malato, questa messa in scena de “Le cinque rose di Jennifer” realizzata al Bellini è si storia una telefonata che non arriverà mai, ma è immagine forte di solitudine senza scampo. E Daniele Russo, con il trucco disfatto nell’angoscia lussuosa del suo abito rosso, creato, come tutti gli altri costumi, da Chiara Aversano, è iperbole ed immagine da non dimenticare.

Giulio Baffi – la Repubblica 27 ottobre 2019

L'uomo più crudele del mondo

L’UOMO PIÙ CRUDELE DEL MONDO

testo e regia Davide Sacco

con Lino Guanciale, Francesco Montanari

scene Luigi Sacco
luci Andrea Pistoia
organizzazione Ilaria Ceci

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini, LVF, Teatro Manini di Narni

Una stanza spoglia, in un capannone abbandonato. I rumori della fabbrica fuori e il silenzio totale all’interno.
Paolo Veres è seduto alla sua scrivania, è l’uomo più crudele del mondo, o almeno questa è la considerazione che la gente ha di lui. Proprietario della più importante azienda di armi d’Europa, ha fama di uomo schivo e riservato. Davanti a lui un giovane giornalista di una testata locale è stato scelto per intervistarlo, ma la chiacchierata prende subito una strana piega.
“Lei crede ancora che si possa andare avanti dopo questa notte… lei crede che questa vita domani mattina sarà la stessa che viveva prima?” dirà Veres al giornalista.
In un susseguirsi di serrati dialoghi emergeranno le personalità dei due personaggi e il loro passato, fino a un finale che ribalterà ogni prospettiva.

Fino a dove può spingersi la crudeltà dell’uomo? Qual è il limite che separa una brava persona da un bestia? A cosa possiamo arrivare se lasciamo prevalere l’istinto sulla ragione?
Queste domande mi hanno guidato durante la stesura del testo e, successivamente, nella direzione degli attori. Volevamo che il pubblico fosse costantemente destabilizzato e non avesse certezze, che si calasse insieme ai personaggi in un viaggio in cui il rapporto tra vittima e carnefice è di volta in volta messo in discussione e ribaltato.
La “feccia” di cui parlano i protagonisti non è visibile nella scena, fatta essenzialmente di luci fredde e asettiche, ma deve emergere gradualmente fino al finale, in cui speriamo che il titolo dello spettacolo possa diventare nella testa degli spettatori non più un’affermazione ma una domanda per riflettere sulla natura del genere umano.

Davide Sacco

Salveremo il mondo prima dell'alba

SALVEREMO IL MONDO PRIMA DELL’ALBA

uno spettacolo di CARROZZERIA ORFEO 
drammaturgia Gabriele Di Luca

con Sebastiano Bronzato, Alice Giroldini, Sergio Romano, Massimiliano Setti, Roberto Serpi, Ivan Zerbinati

regia Gabriele Di Luca, Massimiliano Setti, Alessandro Tedeschi

consulenza filosofica Andrea Colamedici – TLON
musiche originali Massimiliano Setti
scenografia e luci Lucio Diana
costumi Stefania Cempini
creazioni video Igor Baddau
illustrazione locandina Federico Bassi e Giacomo Trivellini
organizzazione Luisa Supino e Francesco Pietrella
ufficio stampa Raffaella Ilari

una coproduzione Marche Teatro, Teatro dell’Elfo, Teatro Nazionale di Genova, Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Dopo aver esplorato in diversi spettacoli il mondo degli ultimi, dei reietti, degli esclusi e dei perdenti, intendiamo in questa nuova produzione indagare il mondo del benessere e dell’apparente successo, attraverso il racconto dei primi, dei vincenti, della classe dirigente, dei ricchi, paradossalmente, però, imprigionati nello stesso vortice di responsabilità asfissianti, doveri castranti, sensi di colpa e infelicità che appartengono a tutti e, quindi, frantumati da tutto ciò che la mentalità capitalista non può comprare: l’amore per se stessi, la purezza dei sentimenti, gli affetti sinceri, la ricerca di un senso autentico nell’esistenza.
Salveremo il mondo prima dell’alba è il racconto della vita di alcuni ospiti e di parte dello staff all’interno di una clinica di riabilitazione di lusso specializzata nella cura delle dipendenze contemporanee come dipendenze sessuali, dipendenza da Internet, dipendenze affettive, dipendenze da lavoro, da psicofarmaci e benzoadepine, droghe e antidolorifici.
In un mondo sempre più frenetico, individualista ed esibizionista, dominato da un tempo schizofrenico e performativo, il prezzo da pagare anche per i vincenti sono l’ansia e l’angoscia, conseguenza spesso dall’ossessione di dover ottenere sempre di più, consolidare, capitalizzare, superarsi. A causa di ciò oggi, come mai prima, le persone si sentono sopraffatte da gravi disfunzioni dell’umore come panico sociale, insonnia, burnout da lavoro, insoddisfazione cronica, stress, inquietudine, frustrazione, senso di fallimento e di vuoto. Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale. Ed è così che sprofondati nel disagio per sfuggire alla realtà, gli ospiti del nostro rehab sono rimasti vittime ognuno della propria dipendenza, via di fuga da una realtà opprimente dalla quale, alcuni costretti dalla società, altri per libera scelta, cercano di liberarsi. Ma le dipendenze e la riabilitazione, ovviamente, costituiscono solo il sintomo esteriore di innumerevoli disagi certamente più profondi, esistenziali e sociali; la metafora di un modello di vita ormai giunto a un punto di non ritorno.

“Il bene non potrà mai vincere perché è sfinente.
L’onestà, la sincerità, il vero amore,
sono tutte cose sfinenti da praticare perché non durano,
sono solo degli istanti. Mentre il male è un maledetto maratoneta,
uno spietato realista senza sonno che ha la resistenza dalla sua.”

Dopo aver esplorato in diversi spettacoli il mondo degli ultimi, dei reietti, degli esclusi e dei perdenti, intendiamo in questa nuova produzione indagare il mondo del benessere e dell’apparente successo, attraverso il racconto dei primi, dei vincenti, della classe dirigente, dei ricchi, paradossalmente, però, imprigionati nello stesso vortice di responsabilità asfissianti, doveri castranti, sensi di colpa e infelicità che appartengono a tutti e, quindi, frantumati da tutto ciò che la mentalità capitalista non può comprare: l’amore per se stessi, la purezza dei sentimenti, gli affetti sinceri, la ricerca di un senso autentico nell’esistenza.
Salveremo il mondo prima dell’alba è il racconto della vita di alcuni ospiti e di parte dello staff all’interno di una clinica di riabilitazione di lusso specializzata nella cura delle dipendenze contemporanee come dipendenze sessuali, dipendenza da Internet, dipendenze affettive, dipendenze da lavoro, da psicofarmaci e benzoadepine, droghe e antidolorifici.
In un mondo sempre più frenetico, individualista ed esibizionista, dominato da un tempo schizofrenico e performativo, il prezzo da pagare anche per i vincenti sono l’ansia e l’angoscia, conseguenza spesso dall’ossessione di dover ottenere sempre di più, consolidare, capitalizzare, superarsi. A causa di ciò oggi, come mai prima, le persone si sentono sopraffatte da gravi disfunzioni dell’umore come panico sociale, insonnia, burnout da lavoro, insoddisfazione cronica, stress, inquietudine, frustrazione, senso di fallimento e di vuoto. Una sensazione di smarrimento comune ad un’intera generazione, sintomo di un disagio epocale. Ed è così che sprofondati nel disagio per sfuggire alla realtà, gli ospiti del nostro rehab sono rimasti vittime ognuno della propria dipendenza, via di fuga da una realtà opprimente dalla quale, alcuni costretti dalla società, altri per libera scelta, cercano di liberarsi. Ma le dipendenze e la riabilitazione, ovviamente, costituiscono solo il sintomo esteriore di innumerevoli disagi certamente più profondi, esistenziali e sociali; la metafora di un modello di vita ormai giunto a un punto di non ritorno.
Il tutto (senza mai negare l’emotività e anche la drammaticità delle tematiche affrontate) verrà esplorato in pieno stile Carrozzeria Orfeo, grazie a un occhio sempre lucido e, forse, disilluso, che intende cogliere, con ironia e anche estremo divertimento, i paradossi, le contraddizioni e le deformazioni grottesche della realtà attraverso personaggi strabordanti di umanità, ironia e dolore. L’habitat della nostra storia, il rehab di lusso, è costituita da una grande sala comune dotata di tutti i comfort, separata attraverso una luminosa vetrata dall’esterno, dove in una sorta di giardino d’inverno con tanto di sdraio e bagno turco, gli ospiti facoltosi si possono rilassare e affrontare il loro programma di riabilitazione attraverso la riscoperta di una vita apparentemente semplice e comunitaria nella quale ognuno è chiamato a impegnarsi per il prossimo e la comunità stessa, la loro nuova famiglia. Tutto ciò è evidentemente qualcosa a cui sono profondamente disabituati.
Salveremo il mondo prima dell’alba vuole affrontare alcuni tra i nodi più sensibili della nostra contemporaneità: la proliferazione delle immagini, il fascino della celebrità, il culto del divertimento e della personalità, soprattutto nel nuovo mondo virtuale, come sintomo di una società sempre più triste eppure satura di foto felici in cui sembra non più esistere un luogo dove riconoscersi come soggetti autentici, né tantomeno in progetti sociali che richiedano la nostra dedizione e la nostra lealtà. La proliferazione di mental coach, di influencer, di trainer, di business man prestati al web, che quotidianamente ci propinano stratagemmi funzionali per raggiungere il successo psicofisico e prevalere sugli altri, essere migliori e dominarli, sono lo specchio di una società che sempre di più, fin da piccoli, fin dalla scuola, ci racconta tutto sulla felicità e sul successo e sempre di meno sul dolore. Dolore inteso, soprattutto, come occasione di ascolto di se stessi, opportunità di trasformazione e crescita. L’errore è bandito, la sofferenza individuale è percepita come una vergogna, una zavorra da nascondere agli altri, come segnale chiaro di debolezza e fallimento; mentre in modo sempre più meschino e ingannevole va affermandosi la nuova eroica parola portavoce del capitalismo: resilienza, che, nel cinico pragmatismo di questo sistema malato, in fondo significa solo: “Resisti, resisti nonostante tutto, ignora te stesso e il tuo dolore, nascondilo, tieni duro, non ascoltarti più e vai avanti. Produci, produci, produci!” E dai desideri soddisfatti nascono sempre nuovi desideri. Sempre più prepotenti, ossessivi e, spesso, indotti dal mondo esterno. Come se volessimo bere il mare di bicchiere in bicchiere. L’infinito. L’impossibile. Un impossibile ricerca senza tempo. Ed è da qui che viene il nostro dolore. Hegel ci parla di Cattivo infinito come di “questo continuo voler sorpassare il limite, che è l’impotenza di toglierlo e la perenne ricaduta in esso.”
E il grande problema sembra essere che ormai non ci si scandalizza nemmeno più delle disfunzioni e delle atrocità del capitalismo perché è un modello di vita diventato così maledettamente normale da essere riuscito a colonizzare il nostro inconscio senza lasciarci nessuna percezione di un’alternativa. Ed ecco, quindi, che parole come comunità, umanità e gentilezza sono quasi del tutto scomparse e bandite dalla nostra società (e quasi dal nostro modo di pensare), se non per essere strumentalizzate a fini propagandistici, elettorali e commerciali e, quindi, svalutate e svuotate di ogni loro significato primario. Di tutto questo resta un’umanità (poveri e ricchi, senza differenze) confusa e impaurita, esseri umani sopraffatti dall’ossessione di questo continuo doversi vendere, con il terrore che nessuno ti voglia mai comprare.
Il tema centrale di Salveremo il mondo prima dell’alba, quindi, si fonda sulla riflessione che a nostro avviso nei prossimi decenni, l’umanità non potrà essere assolutamente in grado di ritrovarsi unita nel combattere le grandi battaglie da tempo rimaste inascoltate come il cambiamento climatico, l’inquinamento, la fame nel mondo e l’ingiustizia sociale, semplicemente perché non è un’umanità preparata a farlo. Non siamo veramente una comunità. In un mondo dove individualismo, narcisismo, slealtà, tradimento, svalutazione dei valori, compromesso, annullamento della morale dominano incontrastati, in un contesto sociale così performativo, competitivo, alienante, dove le nuove generazioni sembrano ereditare solo valori come successo, visibilità e vittoria, sembra impossibile pensare a una grande battaglia collettiva per salvare questo pianeta e l’umanità che lo abita. Quando i politici stessi si espongono su tik tok per pubblicizzarsi e la vita politica, al pari di tutto il resto, diventa mera comunicazione, non può esistere una classe dirigente in grado di sensibilizzare la cittadinanza sui grandi temi. Forse, allora, per poter combattere delle grandi battaglie comuni, dovremo prima essere in grado di ritrovare quel senso di comunità, reciprocità, solidarietà e gentilezza che sembriamo aver smarrito. Potremmo concentrarci sulle grandi battaglie collettive solo se riusciremo prima a riabituarci a guardare con occhi attenti ciò che ci è vicino, chi ci è di fianco. Potremo, forse, farcela solo se riusciremo ad arginare tutta quell’invisibile, eppur feroce, violenza quotidiana tra uomo e uomo. Perché lo sappiamo tutti, ci troviamo di fronte a una pandemia, sì… di indifferenza ed egoismo. Ma se riusciremo in questo, se riusciremo a riavvicinarci attraverso un gesto e un pensiero sincero, un insignificante atto di gentilezza e cura gratuita; se riusciremo a ritagliare, in mezzo al caos, uno spazio per il pensiero semplice, familiare e umano, forse, come proveranno a fare i ricchi, arrabbiati, delusi e inaffidabili ospiti del nostro rehab… beh, forse (ma chi può dirlo), potremo salvare il mondo prima dell’alba.

“Non siamo in grado di riconoscere le cose importanti,
siamo troppo stanchi ed esausti dal resto.
Vediamo la vita solo sfiorando la catastrofe.”

Gabriele Di Luca

Dopodiché stasera mi butto

di Generazione Disagio

regista e coautore Riccardo Pippa

con Luca D’Addino, Luca Mammoli, Enrico Pittaluga e Graziano Sirressi

consulenza scene e costumi Margherita Baldoni
luci Alice Colla
disegni Duccio Mantellassi

produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Lo spettacolo di Generazione Disagio, Dopodiché stasera mi butto, primo lavoro teatrale del collettivo, è un cinico e spassoso gioco dell’oca che mira all’annullamento. Le tematiche di disagio generazionale, crisi e voglia di cambiamento vengono trattate con un gioco di ribaltamento paradossale, invece di risolvere i problemi o lottare per un mondo migliore il pubblico viene invitato a scaricare tutti i suoi problemi su un attore che è un giocatore-pedina e che si contenderà con gli altri la possibilità di arrivare per primo alla casella finale: quella del suicidio. Varie prove e imprevisti faranno avanzare o indietreggiare i personaggi su un tabellone, anche grazie all’aiuto del pubblico dal vivo. Quattro personaggi conducono il pubblico a giocare una folle partita a uno strano e innovativo gioco dell’oca, che ha come obiettivo la casella finale del suicidio. Un conduttore coinvolge gli spettatori per fare avanzare tre pedine umane sul tabellone: un dottorando, un precario e uno stagista attraverseranno imprevisti, prove collettive e prove individuali con un ritmo comico serrato e pezzi di improvvisazione basati su input che vengono dal pubblico. Vincerà chi riesce ad accumulare più sfighe e perciò più “disagio”. Nell’arco dei 70 minuti di spettacolo si affrontano temi quali l’amore, la paura del futuro, il lavoro, la sessualità, la politica, la solitudine e l’indeterminatezza. Uno spettacolo di cinica auto-analisi collettiva che non fa sconti a nessuno: irriverente, comico e profondo, che ci costringe a fare i conti con il mondo che abbiamo costruito e la vita che vorremmo. Il linguaggio alterna in un ritmo serrato citazioni colte, riferimenti pop e provocazioni trash.
“Sappiamo chi sei. 
Tu sei un disagiato. Lo sai tu e lo sappiamo anche noi. Sappiamo quante energie sprechi per non farlo vedere. Fratello disagiato, basta: Il disagio non è un ostacolo sulla strada, il disagio è la strada. 
Non cercare di cambiare te stesso. Non cercare di apparire migliore. Accettati come sei: pigro, inetto, inconcludente, dispersivo, vile. Noi ti vogliamo bene così.
 Non preoccuparti: elimineremo assieme ogni senso di colpa, ogni residuo di frustrazione.
 Noi siamo qui per aiutarti.
Siamo portatori di un messaggio universale che si esprime attraverso la pratica delle tre d:
Distrazione, Disinteresse, Disaffezione.
 Stringi la mano che ti porgiamo. Il futuro è nostro. Grandi giorni di festa si avvicinano.
 Noi siamo la Generazione Disagio. E ce ne sbattiamo il cazzo.”

Scheda di produzione
Rassegna stampa
Visual
Trailer

“[…] la capacità degli attori di Generazione disagio è proprio quella di lanciare forti provocazioni mantenendo sempre un tono scanzonato, di inquietare agendo nel sotterraneo di una superficie di frizzi e lazzi, di far ridere lanciando dei macigni. Di rappresentare, fotografare in questo modo una desolazione generazionale con gli strumenti e i mezzi espressivi propri di questa stessa generazione.”

Giampiero Raganelli – teatroteatro.it

Il Gelo

da Eduardo De Filippo

Con Mimmo Borrelli

Musiche di Antonio Della Ragione

Produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

IL GGELO
Eduardo in calce tra i suoi vuoti,
d’ispirazione, sospendeva scritti,
quando quei meccanismi ignoti
di drammaturgia venivano infitti
dalla mancanza di idee tra le mura
ummete ’i nu camerino friddo.
Notti insonni di genio e stesura,
rifocillava re tonaca e sfriddo
con versi in mattoni di tufo giallo.
Tra muorte pantaseme, anime cumpagne!
Assestava decurazioni de curallo,
penziere sciuovete dint’a nu stagne:
trascuranno ogni affetto re famiglia.
Tutto e sempe p’ ’u duvere verso ll’arte,
curannese, senza abbada’ a lli figlie,
sulo r’ ’a scena … ca r’ ’u munno te sparte.
Artrite e ggelo finanche ’nt’ ’i chiocche.
corpi di storie, faccie pentitente,
evocati dai polsi e dalle nocche.
Spisso ’mpunto ’i morte contundente.
“Ce stanno ’i turni, cascé da pagare:
forse è meglio ca cagno repertorio.”
“Notte diretto’.” – “Chiudo io, lascia stare.”
E faceva matina tra riebbete ’u scrittorio.
Na puisia. Po’ cuntava a lli diarie.
“Nu turno ’i cchiù, sì, pecché l’incasse
nun da sciato ’a vocca, ammanca ll’arie.
E ’u cannarone se secca e ’u suonno passe.
Me faccio nu cafè, vedimmo si è passato.
Appiccio ’ntella nu lumino a uoglio.”
’A notte cunziglio porta ’u scritturato
a ll’autore, no, sulo veglia ’a ssuoglio
re chella pagina ghianca ’i calamaio,
ca s’adda gghienchere già primma, re cunzenze,
già primma, ’nt’ ’u niro r’ogni dubbio e guaio,
cirche salvezza ’i na platea ’i pacienze.
Chi scrive è sulo, cu Dio e ’a passione
de nu triato ca è cundanna e vita,
sulo dint’a chella frustrazione
r’ ’u fallimento prossimo all’uscita.
La creatività?! Va t’ ’a pesca, nunn’esiste!
Va preparata, alimentata r’ ’a fatiche.
Per evocare chilli povere ggiesucriste,
persunaggie re parole annemiche:
comme spine areto ’i rine r’ ’a scritture.
’Nfriddigliuto ’i respunzabbile capriccio
abbuccato a stu breviario re clausura,
sempre tiseco scavato ’i tremmuliccio
Preoccupato ’nt’a n’angulillo scure,
chino re suonno, scazzimma re ’ncienzo,
Tuardo se ne steva comme nu criaturo.
Rannato pure isso r’ ’a paura r’ ’u silenzio
re chill’applauso maje e po’ maje sicuro.


In occasione del Maggio dei Monumenti 2022, che ha voluto rendere omaggio a Eduardo De Filippo nell’anniversario della sua nascita: l’assessorato alla cultura di Napoli ed il sindaco Manfredi mi chiesero, in quella occasione, ovvero il 24 maggio, con grande onore, di ricordare il grande drammaturgo partenopeo alla Chiesa Santa Maria delle Anime del Purgatorio, meglio conosciuta come: chiesa delle Capuzzelle; Cape ’e morte.
Luogo ormai di grande senso e quasi storico per la mia personale produzione site specific, tra l’altro in perfetta e consequenziale armonia concettuale e organica con Efestoval (il Festival che dirigo da anni) ed anche con il tema di quella edizione del 2022, ovvero: il sottosuolo.

Anni fa, nel 2013 la Onlus Opera Pia Purgatorio ad arco nella persona di Daniela d’Acunto e Francesca Amirante, mi proposero follemente di elaborare un percorso formativo e teatrale all’interno della chiesa stessa. Sta di fatto che nell’arco di due anni circa, grazie ad un progetto articolato e virtuoso, con una ricerca antropologica sul sito, interviste con i fedeli, incontri, laboratori, da quel corposo materiale insomma, riuscimmo a concepire OPERA PEZZENTELLA: un poema di cinquemila versi, per uno spettacolo site-specific, che ebbe un enorme riscontro di pubblico, di critica, nonché riconoscimenti e premi, rilanciando anche il complesso museale a tutto tondo.
Mi sembrava di grande segno e senso tornarvi.

Si torna. E arricordatevi st’imbasciata.
Si lascia una parte di sé da qualche parte
per poi turnarci. Comm’ ’addu mamma e pate,
pe’ ce turna’, pecché sulo ’a morte sparte.
Solo la morte divide terra e mari
Quel che dio ha unito luomo non separi.

(La Cupa 2013-2018)

Fare ritorno tra gli echi condivisi della memoria in uno di quei luoghi compagni, come le anime stesse che lo abitano, il quale battezzò di forza positiva quell’anno che fu di ripartenza e di rifondazione, dell’intera mia itinerante carriera: soprattutto dopo il silenzio mascherato di affanno e oblio dovuto ad anni di difficoltà e pandemia. Insomma fu motivo di orgoglio e gioia.
Ed anche affidarsi alla benevolenza di un’anima esemplare, un gigante della scena, un teatrante enorme, colto nella solitudine del suo purgatoriale scrittoio. Condanna e vita. Dannazione e passione. Sacrificio e gelo, così come lui ancora direbbe e ne sono convinto ai giovani d’oggi che si apprestano alla fatica del teatro.
Da qui l’occasione è saltata alla penna. Da qui è nato il “Il gelo”, un reading semplice: un uomo dannato al freddo dell’ispirazione sul tavolaccio del suo scrittoio. Nella solitudine della passione del teatro che non è affatto in “principio verbo” un atto condiviso, bensì privato e privato del consenso, seppur in cerca ostinata e furibonda e luttuosa del consenso stesso.
L’autore è sempre solo di fronte al lenzuolo bianco della morte in pagina, solo e infreddolito dalle idee mancanti di gesso, gelide di marmo, solo poiché la creatività non esiste. Va preparata dalle sofferenze, nutrita dalle mancanze, concimata dalle responsabilità, “attrita” dalle aspettative, nel suo meraviglioso e tragico privilegio: la libertà di creare da solo. Eduardo amava comporre poesie durante le pause che di rado gli concedeva l’attività teatrale, tra preoccupazioni ed insonnia, tra geloni e l’artrite alle nocche delle mani e del pensiero. Dunque me lo sono immaginato tra le quattro mura del suo camerino, intento a fissare su carta i suoi tormenti e a ripeterli e provarli magari a bassa voce come è solito fare chi scrive. Poiché la timidezza del primo fiato alla parola è come un neonato da cullare. Fa commuovere prima chi legge, nell’epifania della scoperta, nella caverna dell’eventuale creazione della bellezza, soggetta al giudizio della morte. Bisogna avere soffio, calore, cura e delicatezza. La prima parola data è innocente e fragile.
La miseria del teatro che come la pesca è fame, libertà e vita:così come mi diceva rispetto alla vita di mare, un mio coetaneo “coffaiolo” Francesco Monti.
Ebbene sì troviamo la solitudine e la miseria di un drammaturgo i cui versi sono zavorrati dai conti e incaprettati dai debiti di un teatro sempre più prigione; la miseria e solitudine di un prete che si spoglia e compie per amore prima di Dio, poi della sua amata, il più scellerato dei voti; la solitudine e la miseria, condita di saggezza, dei beoni d’osteria e ludopatici votati alla fuggevolezza del tempo da rivivere attraverso la visione deforme e presente di un bicchiere; l’allegra miseria di un ladro per necessità che nel delirio della morte s’immagina un Paradiso meno sacro, più umano verso chi non ha voce; lo strazio del fallimento di un artista del cartellone di strada, che come un attore ammutolito dalla pandemia, dopo una guerra infame perde la fama ed il senso del suo ruolo sociale e teatrale; la miseria di un teatrante di provincia che si chiede in scena e chiede ai suoi predecessori che senso abbia ancora scrivere per la scena.
In questa pinacoteca di ritratti in suoni e parole in versi, la drammaturgia dei frammenti stessi e del racconto, se di drammaturgia possiamo parlare, mi ha fatto soffermare tra le tante liriche, su tre cantiche più lunghe. Poiché tre anime del Purgatorio vere e proprie che espiano in terra la loro vita disperata: Padre Cicogna, De Pretore Vincenzo, Baccalà. Tre storie diverse segnate, però, da un comune destino di agonia febbrile e disperazione in una Napoli universo lungo la miseria di un Purgatorio vivo in terra; dove ogni colore, ogni guizzo di gioia, immediatamente dall’altro lato svela improvvisamente un fondale nero. La morte che cammina sempre al fianco, dell’umanità più viva del mondo. Il buio della pagina bianca. Quel buio però, dove la piccola candela della poesia, a volte, anche sulla scena nuda e scarna, può fare luce immensa.
Da quel momento del debutto è scattata una magia: quel silenzio che ti elegge alla parola; quel silenzio lungo che deflagrò nell’applauso finale scrosciante, mi portò ad una convinzione. Ovvero che non poteva essere un evento unico, appartato e per pochi, ma andava replicato. Seppur in situazioni di senso e di contesto. Un momento intimo anche concesso, soprattutto ad una dimensione più privata e raccolta come quella del meraviglioso scrigno del Piccolo Bellini, anch’esso un tempo navata di una chiesa, ora teatro e sede della Bellini Teatri Factory che ho ricevuto l’onore di dirigere due anni or sono.


NOTE SUL CULTO
Vive ancora lì, un culto, forse unico in tutta Europa ancora in parte praticato: l’antico culto delle anime del Purgatorio
Questa pratica custodita da secoli nell’Ipogeo della seicentesca Chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco, sorse spontaneamente, agli inizi del 1600, quando la nuova chiesa controriformata, propose la cura delle anime dei defunti, come una delle principali pratiche religiose per stabilire, attraverso preghiere e messe in suffragio, un legame liturgico tra vivi e trapassati.
Il culto delle anime era stato ampiamente sostenuto dalla chiesa. I vivi, come mezzo per espiare i peccati terreni, si preoccupavano di favorire l’ascesa delle anime in Paradiso e di assicurare loro il refrigerio dalle fiamme del Purgatorio durante il periodo di tribolazione.
Ma a Napoli la relazione diretta con l’anima va oltre, scavalca il limite del tempo della vita e penetra in quello che oltrepassa la vita, attraverso rituali dove la pietas popolare mostra tutta le sue più profonde sfaccettature. Caso felicemente infelice, che acuì il parossismo già latente di tale prassi, fu la peste bubbonica del 1656, che dimezzò completamente la popolazione partenopea con un’infinità di salme senza degna sepoltura, molte di queste date alle fiamme, ma altre ammassate nelle fosse comuni, spesso sottostanti agli ipogei delle diverse chiese del purgatorio.
I morti erano troppi, quindi i famosi schiattamorti (becchini dell’epoca così definiti poiché pestavano nel vero senso del termine le salme onde far fluire gli umori al fine di favorirne l’essiccamento) chiesero alle persone comuni di aiutarli in questa, macabra pratica.
I napoletani, che come sempre oso definire un popolo così vitale, poiché abituato a camminare con la morte sempre accanto, accettarono di buon grado, ma instaurando quasi un rapporto diretto e vivo con la salma, che veniva per l’appunto adottata.
Nei decenni le anime anonime, senza degna sepoltura, quelle abbandonate e senza nome, quelle i cui corpi, che non avevano beneficiato dei riti di compianto, venivano sepolti nelle fosse comuni divennero subito oggetto di culto. Il rapporto si stabilisce attraverso l’adozione di un teschio, che secondo la tradizione è sede dell’anima, che viene scelto, curato, accudito e ospitato da allora in poi in apposite nicchie. L’anima pezzentella (dal latino petere: chiedere per ottenere), anima anonima o abbandonata, invoca il refrisco, l’alleviamento della pena, e colui che l’ha adottata, la persona in vita, a lei chiede grazia e assistenza. Do ut desse.

Da un tempo senza tempo la pietà popolare si prende cura di crani senza nome identificandoli con le anime del Purgatorio, anime il cui abbandono continuerebbe anche nell’altra vita se non fosse per le cure pietose dei devoti. Nell’ipogeo del Complesso del Purgatorio ad Arco, scarabattoli, nicchie, piccoli altarini, raccontano una storia antica, dove si mescolano fede, preghiere e speranze. Lumini, fiori, rosari, piccoli oggetti, messaggi scritti e riposti tra le pieghe dei cuscini dove riposano i teschi, testimoniano la cura, l’amore e la fiducia riposta in queste anime antiche; tra queste, quella di Lucia, è l’anima più amata. Il teschio col velo da sposa, ornato di una preziosa corona, è custodito accanto ad una coppia di teschi che, nell’immaginario popolare, rappresentano i servitori della giovane, una principessa morta giovanissima subito dopo le nozze. A quest’anima la tradizione popolare ha dedicato un complesso altarino eleggendola protettrice delle spose e mediatrice per preghiere e invocazioni.

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