Il Gelo
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Crediti:
Il Gelo
da Eduardo De FilippoCon Mimmo Borrelli
Musiche di Antonio Della Ragione
Anni fa, nel 2013 la Onlus Opera Pia Purgatorio ad arco nella persona di Daniela d’Acunto e Francesca Amirante, mi proposero follemente di elaborare un percorso formativo e teatrale all’interno della chiesa stessa. Sta di fatto che nell’arco di due anni circa, grazie ad un progetto articolato e virtuoso, con una ricerca antropologica sul sito, interviste con i fedeli, incontri, laboratori, da quel corposo materiale insomma, riuscimmo a concepire OPERA PEZZENTELLA: un poema di cinquemila versi, per uno spettacolo site-specific, che ebbe un enorme riscontro di pubblico, di critica, nonché riconoscimenti e premi, rilanciando anche il complesso museale a tutto tondo.
Mi sembrava di grande segno e senso tornarvi.
Si torna. E arricordatevi st’imbasciata.
Si lascia una parte di sé da qualche parte
per poi turnarci. Comm’ ’addu mamma e pate,
pe’ ce turna’, pecché sulo ’a morte sparte.
Solo la morte divide terra e mari
Quel che dio ha unito luomo non separi.
(La Cupa 2013-2018)
Fare ritorno tra gli echi condivisi della memoria in uno di quei luoghi compagni, come le anime stesse che lo abitano, il quale battezzò di forza positiva quell’anno che fu di ripartenza e di rifondazione, dell’intera mia itinerante carriera: soprattutto dopo il silenzio mascherato di affanno e oblio dovuto ad anni di difficoltà e pandemia. Insomma fu motivo di orgoglio e gioia.
Ed anche affidarsi alla benevolenza di un’anima esemplare, un gigante della scena, un teatrante enorme, colto nella solitudine del suo purgatoriale scrittoio. Condanna e vita. Dannazione e passione. Sacrificio e gelo, così come lui ancora direbbe e ne sono convinto ai giovani d’oggi che si apprestano alla fatica del teatro.
Da qui l’occasione è saltata alla penna. Da qui è nato il “Il gelo”, un reading semplice: un uomo dannato al freddo dell’ispirazione sul tavolaccio del suo scrittoio. Nella solitudine della passione del teatro che non è affatto in “principio verbo” un atto condiviso, bensì privato e privato del consenso, seppur in cerca ostinata e furibonda e luttuosa del consenso stesso.
L’autore è sempre solo di fronte al lenzuolo bianco della morte in pagina, solo e infreddolito dalle idee mancanti di gesso, gelide di marmo, solo poiché la creatività non esiste. Va preparata dalle sofferenze, nutrita dalle mancanze, concimata dalle responsabilità, “attrita” dalle aspettative, nel suo meraviglioso e tragico privilegio: la libertà di creare da solo. Eduardo amava comporre poesie durante le pause che di rado gli concedeva l’attività teatrale, tra preoccupazioni ed insonnia, tra geloni e l’artrite alle nocche delle mani e del pensiero. Dunque me lo sono immaginato tra le quattro mura del suo camerino, intento a fissare su carta i suoi tormenti e a ripeterli e provarli magari a bassa voce come è solito fare chi scrive. Poiché la timidezza del primo fiato alla parola è come un neonato da cullare. Fa commuovere prima chi legge, nell’epifania della scoperta, nella caverna dell’eventuale creazione della bellezza, soggetta al giudizio della morte. Bisogna avere soffio, calore, cura e delicatezza. La prima parola data è innocente e fragile.
La miseria del teatro che come la pesca è fame, libertà e vita:così come mi diceva rispetto alla vita di mare, un mio coetaneo “coffaiolo” Francesco Monti.
Ebbene sì troviamo la solitudine e la miseria di un drammaturgo i cui versi sono zavorrati dai conti e incaprettati dai debiti di un teatro sempre più prigione; la miseria e solitudine di un prete che si spoglia e compie per amore prima di Dio, poi della sua amata, il più scellerato dei voti; la solitudine e la miseria, condita di saggezza, dei beoni d’osteria e ludopatici votati alla fuggevolezza del tempo da rivivere attraverso la visione deforme e presente di un bicchiere; l’allegra miseria di un ladro per necessità che nel delirio della morte s’immagina un Paradiso meno sacro, più umano verso chi non ha voce; lo strazio del fallimento di un artista del cartellone di strada, che come un attore ammutolito dalla pandemia, dopo una guerra infame perde la fama ed il senso del suo ruolo sociale e teatrale; la miseria di un teatrante di provincia che si chiede in scena e chiede ai suoi predecessori che senso abbia ancora scrivere per la scena.
In questa pinacoteca di ritratti in suoni e parole in versi, la drammaturgia dei frammenti stessi e del racconto, se di drammaturgia possiamo parlare, mi ha fatto soffermare tra le tante liriche, su tre cantiche più lunghe. Poiché tre anime del Purgatorio vere e proprie che espiano in terra la loro vita disperata: Padre Cicogna, De Pretore Vincenzo, Baccalà. Tre storie diverse segnate, però, da un comune destino di agonia febbrile e disperazione in una Napoli universo lungo la miseria di un Purgatorio vivo in terra; dove ogni colore, ogni guizzo di gioia, immediatamente dall’altro lato svela improvvisamente un fondale nero. La morte che cammina sempre al fianco, dell’umanità più viva del mondo. Il buio della pagina bianca. Quel buio però, dove la piccola candela della poesia, a volte, anche sulla scena nuda e scarna, può fare luce immensa.
Da quel momento del debutto è scattata una magia: quel silenzio che ti elegge alla parola; quel silenzio lungo che deflagrò nell’applauso finale scrosciante, mi portò ad una convinzione. Ovvero che non poteva essere un evento unico, appartato e per pochi, ma andava replicato. Seppur in situazioni di senso e di contesto. Un momento intimo anche concesso, soprattutto ad una dimensione più privata e raccolta come quella del meraviglioso scrigno del Piccolo Bellini, anch’esso un tempo navata di una chiesa, ora teatro e sede della Bellini Teatri Factory che ho ricevuto l’onore di dirigere due anni or sono.
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